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I profili di responsabilità del direttore lavori
Pubblicato su IUSTLABDi Stefano Parma, Avvocato Cassazione Civile, Sez. II, 3 maggio 2016 Appalto – Responsabilità – Direttore e direzione dei lavori MASSIMA: In materia di appalto, il principio dell’esclusione di responsabilità per danni in caso di soggetto ridotto a mero esecutore di ordini (“ nudus minister ”) non si applica al direttore dei lavori che, per le sue peculiari capacità tecniche, assume nei confronti del committente precisi doveri di vigilanza, correlati alla particolare diligenza richiestagli, gravando su di lui l’obbligazione di accertare la conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera appaltata al progetto sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, sicché non è esclusa la sua responsabilità nel caso ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e, in difetto, di riferirne al committente. IL CASO: Il Condominio R. Q. conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Mantova l’impresa costruttrice-venditrice E. M. & C. sas al fine di ottenere il risarcimento dei danni provocati da infiltrazioni d’acqua ed umidità in varie parti degli edifici. L’impresa appaltatrice si costitutiva in giudizio contestando la pretesa risarcitoria, rilevando che i danni ove sussistenti erano ascrivibili all’esclusiva responsabilità del progettista-direttore dei lavori, l’Ing. M. F. chiedendone pertanto la chiamata in causa, a manleva. A seguito di autorizzazione della chiamata del terzo si costituiva altresì in giudizio l’Ing. M. F. il quale a sua volta negava ogni responsabilità. Il Tribunale di Mantova, dopo aver disposto consulenza tecnica, con sentenza condannava in solido l’impresa appaltatrice e l’Ing. M.F. al risarcimento dei danni in favore del Condominio nella misura di Euro 80.110,26. I soccombenti impugnavano siffatta sentenza dinnanzi alla Corte d’Appello di Brescia che integralmente riformava la pronuncia di primo grado rigettando tutte le domande ed osservando che il diritto al risarcimento dei danni nei confronti dell’impresa si era prescritto e altresì dichiarando l’assenza di responsabilità di natura extracontrattuale del progettista-direttore dei lavori nominato dall’impresa. Avverso tale sentenza, il Condominio R. Q. proponeva ricorso per Cassazione a cui resisteva la E. M. sas con controricorso contenente ricorso incidentale, resistendo altresì con separati ricorsi l’Ing. M. F. QUESTIONE: In tema di appalto, il principio dell’esclusione della responsabilità per danni in caso di soggetto ridotto a mero esecutore si applica anche alla figura del direttore lavori? LE SOLUZIONI GIURIDICHE: La Suprema Corte in totale riforma del dictum della Corte territoriale riteneva erronea “ in diritto l’affermazione della Corte d’Appello laddove ritiene una minore incisività dell’attività di controllo del direttore dei lavori sull’andamento degli stessi sol perché vi erano ditte appaltatrici e, soprattutto laddove – sulla base dell’esistenza dell’appaltatore e di un responsabile di cantiere, tale R. (di cui neppure ha verificato le specifiche mansioni o il titolo professionale) – ha di fatto spogliato il direttore dei lavori di ogni responsabilità nella verifica della corretta esecuzione dell’opera […] ”. Ebbene, la Suprema Corte definisce la decisione della Corte di Appello erronea giuridicamente oltre che consistente in un vero e proprio salto logico, mostrando, a riprova di ciò il ragionamento giuridico sotteso e la giurisprudenza espressasi sul punto che, diversamente dal ragionamento della Corte territoriale, conducevano all’accertamento della responsabilità del direttore lavori e non del progettista. Preliminarmente è importante distinguere la figura del progettista da quella del direttore dei lavori, seppur le stesse possano essere ricoperte da un medesimo soggetto, come nel caso di specie. Per progettista s’intende la figura professionale che redige un progetto, spesso di carattere architettonico o tecnico progettuale, attraverso un’attività di progettazione vera e propria, mentre il direttore dei lavori si occupa della fase esecutiva dell’intervento edilizio ed, in tale veste, egli deve verificare che l’opera venga realizzata in conformità al permesso di costruire e secondo le modalità in esso indicate. Nel caso de quo sulla scorta dei fatti e della consolidata giurisprudenza che qualifica l’art. 1669 c.c. quale responsabilità extracontrattuale, analoga a quella aquiliana, si può affermare che in siffatta responsabilità possano incorrere, a titolo di concorso con l’appaltatore, anche tutti quei soggetti che prestando a vario titolo la propria opera nella realizzazione dell’attività abbiano comunque contribuito per colpa professionale alla determinazione dell’evento dannoso, della specie dell’insorgenza di vizi. A differenza di quanto avviene per il progettista, il direttore dei lavori al conferimento dell’incarico contrae un’obbligazione di mezzi che consiste nell’impegno del professionista nell’assolvere le mansioni assegnate con la diligenza necessaria con riguardo all’attività esercitata (art. 1176 c.c.) e richiesta per garantire la corretta esecuzione dell’opera, ovvero, dovrà riferirsi a quella particolare diligenza richiesta dalle caratteristiche dei lavori da dirigere. Per meglio comprendere la portata di una siffatta diligenza è illuminante il richiamo alla giurisprudenza oramai consolidata nell’ambito della direzione lavori, a tenore della quale nel novero delle competenze del direttore dei lavori e pertanto delle obbligazioni a suo carico sono da ricomprendersi (a fronte delle proprie capacità tecniche), precisi doveri quali quello di vigilanza dei lavori, di controllo della conformità dell’opera al progetto, anche nelle fasi progressive, il rispetto delle modalità di esecuzione dell’opera rispetto al capitolato ed altresì il vagli circa l’adozione delle regole della tecnica nel rispetto della normativa vigente. In particolare, l’attività del direttore dei lavori si concreta nell’alta sorveglianza delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento delle operazioni di natura elementare, comporta il controllo della realizzazione dell’opera nelle sue varie fasi (Cass. Civ. Sez. II, del 24 aprile 2008, n. 10728). Grava pertanto sul professionista l’obbligo di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell’impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell’arte e la corrispondenza dei materiali impiegati (Cassazione civile, sez. II, 21/05/2012, n. 8014). Secondo la Corte di Cassazione: “il direttore dei lavori è la persona di fiducia del committente, incaricata di sorvegliare che le opere vengano correttamente eseguite dall’appaltatore e dal personale di cui questi si avvalga intervenendo per tempo anche solo a fermarne l’esecuzione, qualora questa manifesti vizi o difetti ” (Cassazione civile, sez. II, 29/08/2013, n. 19895). In applicazione di questo principio di diritto, si è quindi sostenuto che anche “ il geometra direttore dei lavori, sebbene non competente per l’esecuzione dei calcoli in cemento armato, dovesse essere competente a valutare in corso d’opera come l’appaltatore ed i suoi ausiliari (ivi incluso l’ingegnere progettista delle strutture) eseguissero il loro lavoro, sì da rilevare per tempo i gravi difetti delle opere, prima che esse venissero completate ” (Cfr. Cassazione civile, sez. III, 13/04/2015, n. 7370). Proprio a fronte di tali competenze tecniche, che presuppongono un’applicazione di risorse intellettive e operative da parte del direttore lavori nell’esecuzione del proprio operato, s’impone quella giurisprudenza di legittimità che afferma l’impossibilità di applicazione del principio di esclusione della responsabilità per danni in caso di soggetto ridotto a mero esecutore di ordini, il c.d. “nudus minister” (Cass. Civ. Cassazione Civile, Sez. II, 3 maggio 2016 n. 8700). Ciò detto, risultando la responsabilità del DL di natura contrattuale , il professionista non può affatto esimersi dall’espletare le competenze e i controlli che la diligenza del suo incarico richiedono ex art 1176, 2 comma, neppure invocando l’eventuale presenza in cantiere di altre figure affini (quali altri subappaltatori, per esempio). Sul punto si consideri altresì alla luce dei principi generali della responsabilità aquiliana e della causalità civile (Cassazione civile sez. III 02 febbraio 2010 n. 2360), come la responsabilità del DL possa concorrere, nella causazione di un fatto lesivo di terzi soggetti occorso nell’esecuzione dei lavori, con gli ulteriori fattori causali, precisamente condotte attive od omissive di altri collaboratori, ove tali condotte costituiscano autonomi fatti illeciti che abbiano contribuito causalmente alla produzione dell’evento. Responsabilità che rileva ove il direttore dei lavori abbia omesso gli obblighi e la diligenza derivanti dal proprio incarico (precisamente, omessa impartizione delle direttive volte ad evitare l’evento dannoso, la mancanza di garanzia circa la loro osservanza, od omessa manifestazione del dissenso circa la prosecuzione dei lavori astenendosi dal dirigerli in mancanza delle cautele necessarie) (Cass. Civ. Sez. 22.10.2003, n. 15789). OSSERVAZIONI: Dalle considerazioni suesposte e dalla giurisprudenza richiamata ciò che si evince è che seppur gli oneri gravanti in capo al direttore dei lavori siano da qualificarsi tra le obbligazioni di mezzi e non di risultato ciò non esclude che tutti gli obblighi che ne discendono a fronte della diligenza professionale richiesta, non debbano essere dallo stesso espletati non essendo sufficiente che il direttore lavori effettui un mero controllo della conformità dell’opera al progetto quanto invero anche tutte quelle obbligazioni di vigilanza e rispetto delle normative che ne afferiscono (cfr. Cassazione civile, sez. II, 24/04/2008, n. 10728, v. anche Cassazione civile 03 maggio 2016 n. 8700 sez. II Cassazione civile 30 settembre 2014 n. 20557 sez. III). Si comprende altresì che ove la figura di progettista e quella di direttore dei lavori convergano in un’unica persona la stessa sarà chiamata a rispondere per le responsabilità solo accertate, precisamente nel caso di specie veniva infatti esclusa la responsabilità del tecnico nella sua veste anche di progettista non essendo in tale ambito riscontrati illecito alcuno. Ciò che rileva pertanto in relazione al direttore dei lavori è che egli è chiamato a rispondere del danno derivato al terzo se ha omesso di impartire le opportune direttive per evitarlo e di assicurarsi della loro osservanza, ovvero di manifestare l’eventuale dissenso alla prosecuzione dei lavori stessi astenendosi dal continuare a dirigerli in mancanza di adozione delle cautele disposte (Cassazione civile, sez. III, 22/10/2003, n. 15789). Il consiglio pratico è pertanto il seguente: il direttore dei lavori deve svolgere la propria attività ovviamente nel rispetto della diligenza professionale richiesta alla luce delle peculiari competenze tecniche, precisamente, nel rispetto delle obbligazioni che l’orientamento consolidato della Suprema Corte ha puntualizzato in varie sentenze avendo ben in considerazione che ove il caso concreto invero non consentisse per contingenze di varia natura ciò, il DL potrebbe comunque andare esente da qualsivoglia addebito di responsabilità ove manifestasse il proprio dissenso alla prosecuzione dei lavori stessi, decidendo persino di astenersi dal continuare la propria opera di direttore nel caso in cui non venissero adottate le cautele disposte. Precisamente le obbligazioni, in via generale, poste a carico del direttore dei lavori, differenziandole da affini figure professionali sono: 1) l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica; 2) l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera, e la segnalazione all’appaltatore di tutte le situazioni anomale e gli inconvenienti che si verificano in corso d’opera, oltre sul punto a garantire il rispetto della normativa vigente in materia, in alternativa di manifestare il proprio dissenso alla prosecuzione dei lavori astenendosi dal continuare a dirigerli in mancanza di adozione delle necessarie cautele. Si consideri per completezza espositiva che il direttore dei lavori, anche se è chiamato in causa dall'impresa, può essere condannato al risarcimento del danno qualora non abbia supervisionato e controllato sulla corretta esecuzione dei lavori. Concludendo, il direttore dei lavori può andare esente da responsabilità, anche se chiamato a manleva, ove adempia ai propri obblighi di vigilare ed impartisca le opportune disposizioni al riguardo, preoccupandosi di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e di riferirne al committente. Approfondimenti giurisprudenziali: Puntualizzazione delle obbligazioni poste a carico del direttore dei lavori: Cassazione Civile, sez. II, 24/07/2007, n. 16361 Culpa in eligendo: Cassazione Civile, sez. II, 16/09/2014, n. 19485 La responsabilità del direttore dei lavori per i gravi vizi dell'opera: Cassazione Civile Sez. II 27 gennaio 2012 n. 1218 Direttore dei lavori: è responsabile del risarcimento danni anche se chiamato in causa: Cassazione Civile sentenza, 13 aprile 2015 n. 7370 Sulla responsabilità del direttore dei lavori cfr. Cass. 29 luglio 2005 n. 15255; Cass. 28 novembre 2001 n. 15124
Morte per annegamento a causa del non adeguato servizio di assistenza alla balneazione e di salvataggio: Il sindacato di proporzionalità di matrice Europea esenta il Comune, inadempiente agli obblighi cautelari, dal risarcire i danni da morte ove questa sia occorsa per “fatto” del danneggiato.
Pubblicato su IUSTLABDi Stefano Parma, Avvocato Cassazione Civile, Sez. VI, 22 settembre 2016, n. 18619 Danni- in genere MASSIMA: E' escluso l’obbligo risarcitorio delle pubbliche Autorità che abbiano violato i generali obblighi di precauzione per avere ricostruito, in fatto, quale unica causa della morte di un individuo, la sua condotta negligente di assunzione colpevole e volontaria di un rischio grave per la vita. Tale contegno supera, a parere della Suprema Corte, il controllo di proporzionalità richiesto dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo in tema di tutela del diritto fondamentale alla vita, oggetto dell’art. 2 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. IL CASO: I Sig.ri V. D.B., A. M. e S. D.B., in qualità di congiunti (rispettivamente genitori e fratello) del defunto F. D.B., proponevano ricorso per la revocazione della sentenza n. 11532 del 06 marzo 2014, emanata della Suprema Corte di Cassazione di Roma e depositata in data 23 maggio 2014. Tale procedura veniva proposta a seguito dell’accoglimento del ricorso proposto da Comune di C. avverso la sentenza n. 66 del 2011 della Corte d’Appello di Campobasso, ove lo stesso veniva condannato al risarcimento dei danni patiti dai congiunti per il decesso del Sig. F. D.B., annegato mentre faceva il bagno in un tratto di mare prospiciente il litorale del Comune sopra menzionato, privo di adeguato servizio di assistenza alla balneazione e di salvataggio o di segnalazioni sulla pericolosità del tratto di mare in questione. Il Comune di C., oltre a resistere al controricorso presentato dai congiunti del defunto, proponeva controricorso incidentale condizionato. La Corte di Cassazione riformava integralmente la sentenza della Corte territoriale adita, escludendo la responsabilità del Comune da cose in custodia ex art. 2051 c.c. ed, in ogni caso, l’assenza di qualsivoglia nesso causale tra l’annegamento del Sig. F.D.B. e la prospiciente spiaggia. A nulla rilevava nel caso di specie, a parere della Suprema Corte, l’assenza degli avvisi sulla pericolosità del luogo. Elemento dirimente ai fini della decisione verteva pertanto sull'individuazione della causa efficiente della morte del giovane. Ebbene, nel caso concreto essa veniva ravvisata nella condotta del soggetto che, coscientemente e volontariamente, si esponeva al rischio grave e percepibile con l’ordinaria diligenza di gettarsi, senza saper nuotare, in un tratto di mare agitato di cui non conosceva le impervie condizioni, né le correnti. Tale avventato contegno costituiva pertanto causa sopravvenuta, ex se, idonea a causare l’evento morte. A fronte di tale pronuncia, gli eredi del sig. F.D.B. decidevano di proporre ricorso per la revocazione della sentenza di Cassazione, ritenendo sussistente l’errore della Suprema Corte. Precisamente lamentavano l'errata: 1. qualificazione del tratto di mare antistante la piazza del Comune e 2. attribuzione di rilevanza a fatti risultati inesistenti a seguito dell’istruttoria. A tali motivi di ricorso gli istanti aggiungevano, altresì, la violazione dell’art. 46 dell’obbligo dell’Italia di conformarsi alle decisioni della Corte dei Diritti dell’Uomo e l'inosservanza dell’art. 2 della CEDU sul diritto alla vita. A fronte di tali motivi di ricorso, la Sesta Sezione coglieva l’occasione per chiarire la portata dell’istituto dell’errore revocatorio in tema di sentenze della Corte di Cassazione, così definendolo “ l’errore meramente percettivo, risultante in modo incontrovertibile dagli atti del giudizio di legittimità e tale da aver indotto la stessa Corte di Cassazione a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (od esistenza) di un fatto, positivamente acquisito (od escluso) nelle realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale, e non anche nella pretesa errata valutazione di fatti esattamente rappresentati”. Si desume pertanto che l’erroneità nella valutazione di fatti storici o della rilevanza di questi ai fini della decisione sono ipotesi che non consentono di accedere al mezzo d’impugnazione della revocazione. Alla luce della predetta definizione, la Suprema Corte adita rilevava l’insussistenza nel caso concreto di errori revocatori per poi esprime il principio di diritto sancito nella sentenza in esame. Tale principio di diritto, invero, ha pregio in quanto dimostra la capacità della Corte adita di compiere un ragionevole contemperamento tra gli interessi in gioco, entrambi meritevoli di tutela. In tale pronuncia si contrappongono, infatti, da un lato il diritto alla vita degli utenti da parte dello Stato e delle Autorità pubbliche, dall’altro il diritto della collettività a non dover subire, in un’ottica di autoresponsabilità, le conseguenze dannose derivante da condotte imprudenti e negligenti. Quale diritto deve prevalere a discapito della compressione dell'altro? LA QUESTIONE La condotta imprudente e negligente di un soggetto, che volontariamente e coscientemente si espone ad un rischio grave e percepibile con l’uso dell’ordinaria diligenza, può costituite causa efficiente ed esclusiva dei danni da esso derivati, quale persino la morte? Tale persino da escludere la responsabilità risarcitoria delle Autorità pubbliche che, tenute all'adempimento degli obblighi cautelari, li violi?! SOLUZIONI GIURIDICHE La Suprema Corte, adita con il mezzo revocatorio, risolveva la questione giuridica escludendo l’obbligo risarcitorio in capo alle Autorità pubbliche. Questo seppur avessero violato precisi obblighi cautelari sulla scorta dell’efficienza causale esclusivamente addebitabile alla condotta dell’utente. Quest'ultimo infatti con coscienza e volontà teneva una condotta negligente ed imprudente, assumendosi così il rischio delle proprie azioni. Tale pronuncia si fonda sulla necessità di compiere un bilanciamento efficace ed aderente al caso di specie tra due interessi contrapposti: da un lato, il dovere delle Autorità pubbliche di adempiere gli obblighi cautelari su di esse incombenti (per legge) e posti a presidio della vita degli utenti e, dall’altro, il principio di auto-responsabilità dell'utente stesso che, consapevole dei propri limiti, anche fisici, si assume il rischio della sua condotta. Il ragionamento giuridico della Corte che ha portato poi al principio di diritto in esame si fonda su un principio di matrice europea, il principio di proporzionalità. Nel contesto dell’ordinamento italiano l’influenza del principio di proporzionalità dell'UE si è manifestata in dalla prima metà degli anni '90, persino infrangendo la concezione dualistica del rapporto tra i due ordinamenti (nazionale e comunitario), i quali si presentano, a tenore della Corte Costituzionale, autonomi e distinti. Tale posizione politico-giuridica non ha però precluso al nostro ordinamento di ispirarsi e recepire principi cardine di matrice europea, primo fra tutti proprio quello di proporzionalità. Tal principio tende a bilanciare, ai fini di una corretta valutazione comparativa, gli interessi concretamente in gioco, senza attribuire un peso determinante alla misura del sacrificio patito dal singolo. Questo sindacato diventa invero sempre più complesso e stringente a mano a mano che involga diritti di rango superiore. Il principio sopra menzioanto si ispira pertanto ad un modello di tutela giurisdizionale certamente di tipo oggettivo e non morale. Nel caso di specie viene in rilievo il diritto alla vita, solennemente proclamato in tutte le Carte internazionale e sovranazionali che rappresentano il fondamento da cui poi discendono gli strumenti di tutela dei diritti dell’uomo e della personalità: ex multis, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. A riprova si veda il disposto dell'art. 2 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali il quale prevede, al primo periodo del suo primo comma, che " il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge". Invero, è necessario evidenziare come nella Costituzione italiana non vi sia positivizzazione del diritto alla vita. La ratio di siffatta scelta la si rinviene nei lavori preparatori, a tenore dei quali è stato evitato ciò volontariamente per non dover essere costretti a restringere in un testo scritto concetti che appartengono - per usare l’espressione della sentenza della Corte costituzionale n. 1146 del 1988 – “ all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione stessa”. Nel nostro ordinamento i diritti della personalità, tra i quali il diritto alla vita, rinvengono un espresso riconoscimento costituzionale come in molte occasioni affermato dalla Corte costituzionale, precisamente nell’art. 2 Cost. Il diritto alla vita, nel caso di specie, è chiamato a fronteggiarsi con la responsabilità aggravata e la presunzione di colpa della p.a. ex art. 2051 cc.. In particolare con riferimento all’ipotesi di omessa custodia di beni demaniali e beni patrimoniali indisponibili, di cui quest'ultima è onerata per legge. Tale norma pone a carico del custode l’obbligo di risarcire i danni cagionati a terzi dalla res custodita, salvo il caso fortuito. In tal senso rileva, infatti, la responsabilità da omessa custodia che si configura ove ricorra: l’esistenza di un rapporto di custodia sulla cosa, il nesso di causalità tra la res ed il danno e il danno stesso. I principi giuridici che, secondo la giurisprudenza di legittimità, governano la materia, possono così riassumersi: “ la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia prevista dall’art. 2051 cod. civ., prescinde dall’accertamento del carattere colposo dell’attività o del comportamento del custode e ha natura oggettiva, necessitando, per la sua configurabilità, del mero rapporto eziologico tra cosa ed evento; tale responsabilità prescinde, altresì, dall’accertamento della pericolosità della cosa e sussiste in relazione a tutti i danni da essa cagionati, sia per la sua intrinseca natura, sia per l’insorgenza di agenti dannosi, essendo esclusa solo dal caso fortuito, che può essere rappresentato anche dal fatto del danneggiato, avente un’efficacia causale idonea a interrompere il nesso causale tra cosa ed evento dannoso (cfr. Cass. Civ., sez. III, 07.04.2010 , n. 8229, conf. Cass. Civ., sez. III, 19.02.2008, n. 4279 e Cass. Civ. sez. III, 05.12.2008, n. 28811). Dubbiosa risultava però, nel caso in esame, la natura giuridica e la qualificazione del bene “mare” e pertanto la riconducibilità di un siffatto bene al potere di custodia ex art. 2051 c.c. del relativo Comune. La problematica può comprendersi invero già richiamando le innumerevoli pronunce rese ex art. 2051 c.c. nell’ambito della circolazione stradale con riferimento proprio alle strade, nel proseguo ciò risulterà più chiaro. In tale ambito si è riscontrato un revirement del principio di responsabilità da cose in custodia. La Corte oggi distingue infatti i casi in cui il soggetto proprietario della strada ne abbia il controllo diretto e dunque la custodia (come accade per le strade urbane), da quelli in cui l’impossibilità concreta di controllo diretto esclude la custodia (come è per le strade extraurbane). I danni risentiti dai terzi a causa di vizi della strada, quali buche e simili, sono addebitati al proprietario ex art. 2051 cod. civ. in presenza della possibilità di controllo e quindi di custodia, mentre gli potrebbero essere ascritti solo sulla base del generale principio del neminem laedere (art. 2043 cod. civ.) in carenza di tale possibilità. Ebbene, analoga è proprio la concezione affermatasi nel campo parallelo dei beni demaniali marittimi: la responsabilità dello Stato per i danni derivanti dagli stessi viene ricondotta all’art. 2051 cod. civ. (responsabilità da cose in custodia) quando vi è la possibilità di controllo diretto, come è per i moli, le darsene, gli scivoli a mare e le altre opere, mentre deve essere valutata sulla base del criterio generale dell’art. 2043 cod. civ. in tutti gli altri casi, in cui non può esservi controllo diretto e quindi custodia (spiagge, litorali e simili). Sul punto si era espressa in senso ancor più estensivo proprio la Corte di Cassazione Civile (con la sent. sez. III, sentenza 23/05/2014 n° 11532) sostenendo che il mare non costituisce un bene suscettibile di “custodia” da parte del Comune perché non è un bene demaniale ma una res communis , pertanto insuscettibile di proprietà pubblica o privata. Lo si desumerebbe dal disposto degli artt. 822 c.c. e 29 cod. nav., i quali non comprendono il mare tra i beni demaniali. Precisa sul punto la sentenza che “ Il Collegio non ignora che, in precedenti occasioni, questa Corte ha affermato l’invocabilità della presunzione di cui all’art. 2051 c.c. nei confronti della pubblica amministrazione per i danni causati da beni demaniali, ed in particolare dall’uso di strade aperte al pubblico in transito. Tuttavia in merito a tale orientamento due considerazioni si impongono: - in primo luogo, nessuna delle decisioni ad esso aderenti aveva ad oggetto una ipotesi di responsabilità per danni causati dal mare, il quale non è un bene di grande estensione, come le strade, ma un bene di sconfinata estensione; - in secondo luogo, anche le decisioni che aderiscono all’interpretazione più liberale dell’art. 2051 c.c., si fondano comunque sul presupposto che tale norma si applichi alla p.a. quando quest’ultima abbia una possibilità concreta di controllo sul bene demaniale”. Sulla scorta di tale ragionamento la Cassazione afferma che “non essendo dunque concepibile in iure un "demanio comunale" sul mare, nemmeno è concepibile un rapporto di "custodia" di esso da parte del Comune che sul mare si affacci ”. L’invocabilità della presunzione di cui all’art. 2051 c.c. per i danni causati da beni demaniali si fonda sul presupposto che sussista una possibilità concreta di controllo e di vigilanza sul bene, la quale, invece, con riferimento al mare manca completamente, avendo quest’ultimo dimensioni sconfinate ed essendo di stato mutevole. Alla luce di tutte le considerazioni suesposte la Corte di Cassazione, in sede di revisione, si trovava pertanto a decidere quali sacrifici imporre all'uno o all'altro diritto. Il Collegio riteneva però che il controllo di proporzionalità in punto di rispetto del diritto alla vita era stato operato in modo adeguato dal giudice che aveva emesso la pronunzia di merito, sopra esaminata, così condividendo il principio di diritto e accertando e dichiarando il rispetto dello stesso al principio di proporzionalità. OSSERVAZIONI Il principio di diritto così espresso contempera adeguatamente l'esigenza di tutela del diritto alla vita da parte dello Stato e dei pubblici poteri, che impone l'obbligo anche alle pubbliche autorità di adottare ogni precauzione per scongiurare pericoli per la vita stessa degli individui, con quella altrettanto ragionevole di non accollare alla collettività le conseguenze dannose di natura economica che derivino da condotte di esclusiva, volontaria e consapevole esposizione al rischio da parte dell'utente. Per il detto margine di apprezzamento quindi la tutela del diritto alla vita da parte dei pubblici poteri non può spingersi sino al risarcimento dei danni derivanti dalla condotta volontaria, la quale abbia di per sé costituito unica causa della lesione del danneggiato. Nel dubbio l’astensione è forse l’arma vincente e ove per incoscienza un soggetto decida comunque di agire assumendosi il rischio delle proprie azioni non può che vedersi applicato il principio di auto-responsabilità. Corollario dell'autoresponsabilità è certamente il principio di causalità, che impone l'imputazione del fatto dannoso al soggetto che lo ha causato, rendendo pertanto arbitrario il riverbero di siffatte conseguenze dannose in capo a soggetti terzi estranei alla condotta volontaria e cosciente del danneggiato. Il principio di diritto della sentenza in esame può così essere riassunto nella citazione: “ C’è ancora speranza di salvezza quando la coscienza rimprovera l’uomo” Publilio Siro Approfondimenti giurisprudenziali: - Cass. Civ. 23/05/2014 n° 11532; - Corte Costituzionale sulla concezione dualistica: storiche sentenze: La Pergola sentenza n. 170 del 1984 e le pronunce n. 348 e 349 del 2007 In materia di art. 2051 c.c.: - Cassazione Civile, sez. VI, 24 ottobre 2014, n. 1468; - Cassazione Civile, sez. III, 24 febbraio 2014, n. 4277; - Cassazione Civile, sez. III, 20 gennaio 2014, n. 999.
La legittimazione passiva dell’azione di risarcimento danni da black out del servizio di energia elettrica
Pubblicato su IUSTLABAUTORE Stefano Parma, Avvocato ESTREMI: Corte di Cassazione, Sez. III Civ., 23.01.2018, n. 1581 sentenza, Presidente Spirito Angelo – Relatore Dell’Utri Marco VOCE BUSSOLA: Responsabilità civile MASSIMA: “La società che si occupa della mera compravendita di energia elettrica non può essere chiamata a rispondere dei danni subiti dall'utente finale a causa di un black out imputabile al malfunzionamento della rete di trasmissione. Il legittimato passivo della pretesa risarcitoria è pertanto da individuarsi esclusivamente nella società che si occupa della produzione e del trasporto della stessa. Quest’ultimo soggetto infatti per i caratteri di autonomia ed indipendenza che lo contraddistinguono non può rientrare nell’alveo degli ausiliari (ex art. 1228 c.c.) dell’ente mero venditore di energia elettrica.” IL CASO Il Sig. N.M., in qualità di titolare della ditta M.S., conveniva in giudizio avanti al Giudice di Pace di X la società erogatrice di energia, S. S.p.a., al fine di ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali subiti a causa di un black-out, protrattosi diverse ore, del servizio di erogazione dell’energia elettrica. Il primo Giudice accoglieva la domanda di risarcimento dei danni proposta dall’attore nei confronti della soc. S. S.p.a., in ragione del contratto di somministrazione concluso tra le parti, che obbligava quest’ultima alla fornitura dell’energia elettrica. Avverso siffatta pronuncia la società convenuta, soccombente in primo grado, promuoveva appello dinanzi al Tribunale di X. Il Giudice dell’impugnazione, a sostegno della decisione assunta dal Giudice di prime cure, confermava la condanna della società S. S.p.a., ritenendola responsabile ai sensi e per gli effetti dell’art. 1228 c.c. per i fatti comunque addebitabili al diverso ente distributore di energia, per la sua qualità di ausiliario della società convenuta. Impugnando tale sentenza la società S. S.p.a. proponeva ricorso per Cassazione, formulando quattro motivi, a cui resisteva con controricorso il Sig. N. M., nella sua qualità. QUESTIONE: In tema di fornitura di energia elettrica, al fine di individuare il legittimato passivo nell’eventuale causa di risarcimento dei danni subiti dall’utente finale per il black out, protrattosi per diverse ore, nell’erogazione dell’energia elettrica, è rilevante a livello giuridico distinguere tra ente rivenditore ed ente erogatore-gestore di energia elettrica? In altre parole, i soggetti che svolgono la gestione della rete e delle attività di trasporto di tale energia sono da considerarsi “ausiliari” dell’ente che si occupa della mera compravendita di energia elettrica? Il mero venditore di tale servizio è pertanto responsabile anche del disservizio della rete di trasmissione dell’energia in ragione del disposto di cui all’art. 1228 c.c., oppure di tale malfunzionamento ne risponde, ex se , il soggetto a ciò preposto? Il soggetto che trasporta energia elettrica è pertanto da considerarsi soggetto autonomo ed indipendente dal mero venditore di energia? SOLUZIONI GIURIDICHE: La disamina della pronuncia in oggetto necessita, preliminarmente e seppur per inciso, di addivenire alla qualificazione del contratto di fornitura di energia elettrica concluso dall’utente finale ed al quale segue l’invio delle ben note bollette. Ebbene, in giurisprudenza tale rapporto viene generalmente ricondotto nell’alveo del contratto tipico di somministrazione, in virtù del quale l’ente si impegna, dietro corrispettivo, nei confronti dell’utente finale alla fornitura continuativa di una certa quantità di beni o di servizi (art. 1559 c.c.). Rientriamo pertanto nella categoria dei contratti di scambio, all’interno della quale tale negozio si caratterizza per la periodicità della prestazione a cui il somministrante è obbligato. Colto così l’inquadramento contrattuale della fattispecie, è necessario introdurre, alla luce della liberalizzazione dei servizi di energia, il distinguo di recente acquisizione esistente tra le società che vendono l’energia elettrica, e quelle che invece tale bene producono, trasportano e distribuiscono alla rete elettrica fino a raggiungere l’utente finale. Comprendere tale distinzione non è problematica di natura meramente teorica, bensì, ha importanti ripercussioni sul piano giuridico. Ciò consente, infatti, all’utente finale di individuare correttamente il responsabile dei danni da black out dallo stesso subiti a causa del malfunzionamento della rete elettrica e pertanto il corretto legittimato passivo nei confronti del quale elevare la propria pretesa risarcitoria in previsione di un eventuale contenzioso giudiziario. Ebbene, per ente rivenditore di energia s’intende colui con il quale gli utenti firmano i contratti di fornitura, ovvero colui che sul mercato elettrico si occupa della mera compravendita dell’energia. Diversamente vi sono soggetti, altri e diversi dagli enti appena citati, dotati di effettivi e concreti poteri di gestione della rete di trasmissione dell’energia elettrica e del relativo trasporto, i quali sono preposti al regolare funzionamento della linea di trasmissione dell’energia e/o della struttura fisica deputata al suo trasporto e alla conseguente distribuzione al dettaglio. Siffatto delineato contesto ci consente ora di entrare nel vivo della questione giuridica sottesa alla pronuncia in esame, ovvero di interrogarci sull’applicabilità del disposto di cui agli artt. 1218 e 1228 c.c. all’ipotesi, come nel caso di specie, della richiesta di risarcimento dei danni arrecati all’utente finale a causa di black out del servizio di erogazione dell’energia elettrica per malfunzionamento della rete di trasmissione. Posta in questi termini la questione giuridica, va da sé la natura contrattuale (ex art. 1218 c.c.) del rapporto sotteso al contratto di compravendita di energia elettrica intercorrente tra l’utente del servizio e il soggetto venditore della stessa. Ebbene, per addivenire ad una soluzione, che è poi quella percorsa dalla Suprema Corte, ciò che invece deve essere indagata è la riconducibilità nel concetto di “ausiliario” ex art. 1228 c.c. dell’ente che si occupa della gestione della rete di trasmissione e trasporto dell’energia, rispetto al soggetto invece mero venditore di energia. Tale norma, in tema di responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari, costituisce estensione alla contrattualistica della disciplina contenuta negli art. 2048 e 2049 c.c., postulando, per la sua concreta applicabilità, l'esistenza di un danno causato dal fatto dell'ausiliario, l'esistenza di un rapporto tra ausiliario e committente (cd. rapporto di preposizione), l'esistenza, infine, di una relazione di causalità ("rectius", di occasionalità necessaria) tra il danno e l'esercizio delle incombenze dell'ausiliario (1). Per completezza, si precisa che l’espressione “nesso di occasionalità necessaria” è stata oggetto di chiarimento da parte della Suprema Corte, a tenore della quale essa deve intendersi “ senso che le mansioni affidate al dipendente abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno, a nulla rilevando che tale comportamento si sia posto in modo autonomo nell'ambito dell'incarico o abbia addirittura ecceduto dai limiti di esso, magari in trasgressione degli ordini ricevuti” . (2) In sostanza, la responsabilità di chi si avvale di terzi per l'adempimento della propria obbligazione contrattuale trova fondamento nel rischio connaturato alla loro utilizzazione. Questo principio di diritto viene compendiato nell’espressione latina cuius commoda eius et incommoda , tradotto “ a colui che ha vantaggi, spettano anche gli svantaggi ”. Al riguardo l'art. 1228 c.c., nell'accollare al debitore le conseguenze del fatto doloso o colposo dei suoi ausiliari, rappresenta per giurisprudenza prevalente, una forma di responsabilità oggettiva che per sua natura rende superfluo l'accertamento di una culpa in eligendo o in vigilando , dal momento che il comportamento dell'ausiliario è valutato secondo gli stessi criteri applicabili in caso di adempimento diretto dell'obbligazione da parte del debitore. (3) Compresi così i presupposti per l’applicazione di siffatta responsabilità, la pronuncia in oggetto scandaglia la definizione normativa del concetto di ausiliario così come indicato nel disposto di cui all’art.1228 c.c. Ebbene, la definizione che la Suprema Corte adotta nella sentenza oggetto di odierna disamina è di granitica e costante creazione giurisprudenziale e postula che “ Possono considerarsi ausiliari del debitore, nei termini indicati dall'art. 1228 c.c., non tutti i soggetti della cui attività il debitore si avvalga per l'adempimento della propria obbligazione, ma soltanto coloro che agiscono su incarico del debitore ed il cui operato sia assoggettato ai suoi poteri direttivi e di controllo, a prescindere dalla natura giuridica del rapporto intercorrente tra loro ed il debitore medesimo, ovvero allorché sussista un collegamento tra l'attività del preteso ausiliario e l'organizzazione aziendale del debitore della prestazione”. (4) In altre parole, i Giudici di legittimità hanno ritenuto che l’ausiliario di cui al disposto dell’art. 1228 c.c. è da considerarsi solo colui della cui attività il debitore si avvalga per l’adempimento dell’obbligazione, ovvero del soggetto che agisca su incarico di questo ed il cui operato sia assoggettato ai suoi poteri direttivi e di controllo. Coerentemente con tale consolidato orientamento giurisprudenziale, la Suprema Corte ha ritenuto che, rispetto all’ente che limita la propria attività alla sola compravendita di energia elettrica, non possa trovare applicazione l’art. 1228 c.c. con riferimento ai soggetti responsabili della gestione della rete nelle sue diverse diramazioni, così come delle attività di trasporto dell’energia fino al contatto con le singole utenze individuali. Infatti, basti considerare che in capo all’ente che si occupa della mera vendita dell’energia non possono riscontrarsi affatto i poteri direttivi e di controllo sui soggetti preposti alla gestione, trasmissione e trasporto dell’energia; requisito, come sopra espresso, essenziale ai fini dell’applicabilità della norma in esame. Questi ultimi infatti sono da considerarsi soggetti autonomi ed indipendenti da qualsiasi altro ente operante nel settore elettrico, controllando esso stesso infatti tutti i flussi di energia. Ciò detto, la Suprema Corte, concludendo il ragionamento giuridico, ha ritenuto che i soggetti che si occupano del regolare funzionamento della linea di trasmissione dell’energia e/o della struttura fisica deputata al relativo trasporto e distribuzione al singolo utente finale non possono essere considerati ausiliari ex art. 1228 c.c. di colui che si occupa della mera vendita all’utente dell’energia elettrica. In conclusione, alla luce delle considerazioni suesposte, la pronuncia in oggetto giunge alla declaratoria di difetto di legittimazione passiva della società venditrice dell’energia rispetto alla domanda di risarcimento dei danni formulata nei suoi confronti dall’utente finale per la mancata erogazione del servizio per il malfunzionamento della rete, a fronte dell’inapplicabilità dell’art. 1228 c.c. non rientrando nel concetto di ausiliario il soggetto autonomo ed indipendente che si occupa della trasmissione dell’energia. OSSERVAZIONI Si consideri che l’orientamento espresso dalla Suprema Corte, nella sentenza in esame, s’inserisce in un filone giurisprudenziale conforme nel tempo, a tenore del quale per non incorrere in un difetto di legittimazione passiva, in caso di contenzioso, l’utente finale del servizio deve avere contezza della distinzione, sopra meglio precisata, tra due soggetti, da un lato colui che è il mero venditore di energia e dall’altro, l’ente che invece si occupa della sua gestione, trasporto e distribuzione. Tale questione è sorta a seguito dell’intervenuta scissione tra tali soggetti. Infatti, diversamente da oggi, in passato si registrava il monopolio dell’energia in capo ad un’unica società, nota nel settore, la quale si occupava di tutti gli step della fornitura di energia elettrica, dalla compravendita sino all’erogazione alle singole utenze individuali. Un tempo, pertanto, era indubbio il soggetto da adire in giudizio nell’ipotesi di richiesta di risarcimento dei danni da malfunzionamento della rete. Oggi invece è necessaria la dovuta attenzione nella scelta del legittimato passivo. Infatti, il danneggiato deve considerare che ove i danni subiti, nella sua qualità di utente finale, derivino dal malfunzionamento della rete di trasmissione, alcuna responsabilità può essere addebitata alla società venditrice del servizio, risultando pertanto l’unico responsabile nei confronti del quale agire il soggetto preposto alla gestione, trasmissione e trasporto dell’energia. A ciò si aggiunga, altresì, la necessità per l’utente, ai fini dell’accoglimento della sua pretesa, di fornire la prova del c.d. danno-conseguenza rispetto al caso concreto. (5) Infine, per completezza, si precisa che il diritto al risarcimento dei danni, per i Giudici di merito, può consistere, oltre che in quello di natura patrimoniale, anche nel danno non patrimoniale, ciò ove la lesione presenti i connotati della serietà e della gravità (cfr. sentenze di San Martino delle Sezioni Unite Cass. 11 novembre 2008, n., 26972-75). GUIDA ALL'APPROFONDIMENTO: Riferimenti normativi: Artt. 1218 e 1228 c.c. Giurisprudenza rilevante: (1) Responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari: Cassazione civile, sez. III, 17/05/2001, n. 6756; (2) Sul concetto di “nesso di occasionalità necessaria”: Cassazione civile, sez. III, 22/09/2017, n. 22058, Ridare, articolo dell’1 agosto 2016, L'occasionalità necessaria nella responsabilità ex art. 2049 c.c.; (3) Natura oggettiva della responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari: Cass. Sez. III, 04.04.2003, n. 5329; (4) Concetto dell’ausiliario del debitore ex art. 1228 c.c.: Cassazione civile, sez. III, 08/10/2010, n. 20915 fattispecie in tema di black-out; (5) Danno conseguenza: Cass. Civ., Sez. III, 21.09.2009, n. 20324; (6) Risarcimento danno non patrimoniale: Tribunale Napoli, 16.04 2007; Tribunale di Potenza, Sentenza 17 agosto 2011, n. 1028.
Libero professionista - Avv. Stefano Parma
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Responsabilità da prodotto difetto c.d. “product liability” ed il mondo delle lobby farmaceutiche
Pubblicato su IUSTLABDi Stefano Parma, Avvocato Cass. Civ., Sez. III, sent., 13 marzo 2015, n. 15851 (Presidente, Dott. Roberta Vivaldi) Responsabilità per danni da prodotto difettoso MASSIMA : La responsabilità da prodotto difettoso ha natura presunta , e non oggettiva, prescindendo infatti tale accertamento dalla prova della colpevolezza del produttore (elemento soggettivo), ma non anche dalla dimostrazione dell'esistenza di un difetto del prodotto (elemento oggettivo). Incombe, pertanto, sul soggetto danneggiato - ai sensi dell'art. 8 d.P.R. 24 maggio 1988 n. 224 (trasfuso nell'art. 120 del cd. "Codice del consumo") - la prova del collegamento causale non già tra prodotto e danno, bensì tra difetto e danno , salva comunque la prova liberatoria del produttore, il quale andrà esente dalla responsabilità per danni da prodotto difettoso ove lo stesso provi il verificarsi di una delle cause di esclusione previste ex lege (v. ex art. 6 d.P.R. 24 maggio 1988 n. 224 (trasfuso nell'art. 118 del cd. "codice del consumo") IL CASO : La presente pronuncia trae il proprio principio di diritto dal seguente caso concreto: il Tribunale di Pescara veniva investito della difficile questione circa la risarcibilità del danno, patrimoniale e non, che l’attrice, la sig.ra B. M., riteneva di aver subito a seguito dell’assunzione di un preciso farmaco, il G., convenendo perciò in giudizio una nota casa farmaceutica, la società M.F. Spa, in qualità di produttrice e distributrice dello stesso. Alle richieste di accertamento della responsabilità per danno da prodotto difettoso e del relativo risarcimento dei danni patiti avanzati dall’attrice, si opponeva fermamente in giudizio la società convenuta, eccependo l’esclusione delle propria responsabilità ai sensi dell'art. 6 D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224, precisamente “ per l’opacità del difetto dello stato delle conoscenze scientifiche del tempo nonché il difetto di prova circa l’imputabilità a sé del farmaco assunto dall’attrice, non avendo questa specificato il relativo lotto di produzione verosimilmente ancora riferibile a B.”. In primo grado, la società farmaceutica veniva però condannata al risarcimento dei danni in favore dell’attrice. A seguito della soccombenza, la società M.F. Spa promuoveva avverso siffatta pronuncia il relativo giudizio d’impugnazione innanzi alla Corte di Appello dell’Aquila. Il giudice del gravame riformava la sentenza di primo grado accogliendo l’appello come presentato dalla società farmaceutica e rigettando le domande della sig.ra B.M. Avverso tale riforma, quest’ultima proponeva ricorso per Cassazione deducendo, oltre a questioni preliminari di rito, nel merito, la violazione e falsa applicazione dell’art. 6 D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224 adducendo a sostegno di ciò che la società appellata, una volta acquistati i diritti e brevetti dalla B. relativi al principio attivo niperotidina e ritirate le scorte del farmaco G. presso la venditrice, aveva iniziato, in proprio, a produrre il G. acquistando la niperotidina presso un nuovo fornitore (società spagnola U), così producendo e commercializzando un farmaco del tutto diverso da quello venduto dalla B, senza però preoccuparsi di effettuare i dovuti accertamenti circa la qualità dei materiali forniti da U. Non solo l’appellante sottolineava come la società farmaceutica, responsabile, non si fosse neppure preoccupata di dimostrare la sua impossibilità a conoscere il difetto del prodotto in base alla ripartizione dell’onere probatorio di cui all’art. 8 D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224. In secondo luogo, la sig.ra B.M. contravveniva all’interpretazione del giudice del gravame, il quale aveva valutato il ritiro del farmaco dal mercato quale esimente della responsabilità, assumendo al contrario l’appellante che tale circostanza fosse da considerarsi invero “ comportamento responsabile ”, precisamente da addebitarsi quale colpa grave a carico della società farmaceutica per il “ comportamento omissivo e intempestivo ” avendo la stessa contezza degli effetti collaterali del farmaco già da un anno prima dal ritiro cautelativo dal mercato del suo prodotto. La Suprema Corte esaminati congiuntamente i motivi, dichiarava l’infondatezza di entrambi per carenza probatoria. Una volta ribadita, infatti, la natura “ presunta ” della responsabilità da prodotto difettoso, la Corte evidenziava le carenze probatorie addebitabili alla ricorrente non avendo la stessa soddisfatto l’onere di cui all’art. 8 D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224 precisamente di aver mancato di provare il “ collegamento causale ” tra “ difetto e danno ” e non già tra “ prodotto e danno ” mentre escludeva la responsabilità della società resistente ai sensi dell’art. 6 lett. e) D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224, ovvero, in quanto “ lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare il prodotto come difettoso ” Queste le premesse alla questione giuridica oggetto della pronuncia. LA QUESTIONE : Alla luce della trasposizione nel Codice del Consumo (art 114-127 Dlgs. n. 206 del 2005) della disciplina della responsabilità del produttore originariamente dettata dal D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224 è necessario domandarsi: “se possa registrarsi continuità circa la natura presunta della responsabilità da prodotto difettoso e il relativo riparto dell’onere probatorio tra danneggiato e produttore e, pertanto, quando possa configurarsi a carico di quest’ultimo l’obbligo di risarcimento del danno, sia patrimoniale sia non patrimoniale, ad esso conseguente, alla luce anche dell’eventuale prova della sussistenza di una delle cause di esclusione di tale responsabilità previste ex lege (dell’art. 6 D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224, ora art. 118 cod. cons.). Il tutto con particolare riferimento, nel caso che ci compete, all’ipotesi di ristoro dei danni derivati dall’assunzione di un farmaco in commercio, successivamente ritirato in via cautelativa”. LE SOLUZIONI GIURIDICHE: La soluzione del caso prospettato necessita preliminarmente una breve disamina dell’espressione “ responsabilità del produttore per i danni da prodotto difettoso ” la cui normativa di riferimento originariamente dettata dal D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224 è oggi confluita nel D.lgs. n. 206 del 2005, altrimenti noto come Codice del Consumo, precisamente nel Titolo II rubricato “Responsabilità per danno da prodotti difettosi”, Parte IV, agli artt. 114-127. Ebbene, tale disamina non può che trarre origine proprio dal dettato dell’art. 114 cod. cons. a tenore del quale: “ Il produttore e' responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto ”. Ciò detto è da premettere come sia la normativa stessa a fornirci le definizioni basilari prodromiche all’individuazione di una siffatta responsabilità, precisamente l’art. 115 cod. cons. definisce il produttore , come colui che “ e' il fabbricante del prodotto finito o di una sua componente, il produttore della materia prima, nonché', per i prodotti agricoli del suolo e per quelli dell'allevamento, della pesca e della caccia, rispettivamente l'agricoltore, l'allevatore, il pescatore ed il cacciatore” consentendoci così tale disposto d’individuare i soggetti passivi di tale responsabilità (salva la responsabilità del fornitore in caso di non individuazione del produttore). Ancora la stessa norma definisce anche la fonte materiale di una siffatta responsabilità, ovvero, il prodotto intendendosi tale “ogni bene mobile, anche se incorporato in altro bene mobile o immobile (compresa l’elettricità) ”. Tale ultima definizione però merita una precisazione ai fini dell’individuazione dei soggetti c.d. legittimati attivi dell’azione di risarcimento dei danni quando il prodotto possa qualificarsi come “ difettoso ” e pertanto possa costituire fonte della pretesa risarcitoria del danneggiato. Sul punto, l’art. 117 cod. cons. viene a conforto prevedendo che “ un prodotto e' difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze ” norma dalla quale è possibile evincere ben tre tipologie distinte di vizi precisamente quelli di fabbricazione (comma 3), di progettazione (comma secondo) ed, infine, quelli d’informazione derivanti da carenza d’istruzioni circa l’utilizzo del prodotto (comma primo, lett. a). In altre parole, in via generale, il prodotto è difettoso quando non è sicuro. Corrolario di ciò, è l’utilizzo da parte del legislatore di un “concetto di difetto” che Autorevole dottrina (Garofoli) definisce “ relazionale ” risultando, invero, pacifica la consapevolezza circa l’impossibilità di creare un prodotto da immettere sul mercato che in assoluto non presenti alcun pericolo per il consumatore. Da ciò consegue naturalmente la necessità di correlare il giudizio di pericolosità ad alcune variabili così riassumibili: - le informazione e istruzioni divulgate circa le modalità di utilizzo del prodotto - il comportamento prevedibile dei consumatori che acquistano lo stesso - ed, infine, all’evoluzione e ai traguardi tecnologici di un preciso momento storico (cfr. art. 117 cod. cons.). A fronte di quanto sin qui esposto è pertanto possibile individuare anche i soggetti legittimati attivi alla domanda di risarcimento, ovvero, coloro che hanno subito un danno, patrimoniale o non, dall’uso di un prodotto risultato, a seguito della relativa indagine, difettoso. Fatte così le necessarie premesse è doveroso ora focalizzarci sulla pronuncia oggetto della disamina ovvero precisamente sulla natura “presuntiva” e non oggettiva della responsabilità del produttore per danni da prodotto difettoso ed il relativo regime probatorio. Ebbene individuato il produttore quale soggetto passivo , il danneggiato potrà avanzare nei suoi confronti domanda di risarcimento danni, patrimoniali e non , occorsigli dall’utilizzo del prodotto difettoso solo ove riesca a dar prova di tre elementi: 1) il difetto del prodotto , 2) il danno patito e 3) il relativo nesso causale (tra difetto e danno) (ex art. 120 cod. cons.), concentrando in sé quest’ultimo articolo due aspetti, ovvero, 3.1) la causalità tra l’utilizzo del prodotto che si assume essere difettoso e il danno più propriamente detto e 3.2) la connessione causale tra il difetto e il danno. In altre parole, il consumatore sarà chiamato ex lege una volta dimostrato - anche mediante il ricorso a presunzioni - il difetto del prodotto, che deve manifestarsi all’esterno (esplosione, effetti collaterali ecc.), che tali conseguenze negative siano occorse seppur vi sia stato un utilizzo normale ed attento del prodotto difettoso costituendo esso la causa del danno patito. Ciò detto, la sentenza in commento ribadisce, in un’ottica di completa adesione all’orientamento giurisprudenziale precedente la natura presuntiva della responsabilità del produttore per danni da prodotto difettoso, in luogo, di quella oggettiva, proprio in quanto tale addebitabilità al produttore prescinde dal vaglio dell’elemento soggettivo della colpa di quest’ultimo focalizzandosi diversamente sull’esistenza di un difetto e sul nesso causale tra esso ed il danno lamentato. Contro, si evidenzia la pronuncia della Cass. Sez. III, del 15 marzo 2007, n. 6007, quale unico e isolato tentativo di ricondurre la responsabilità del produttore per danni da prodotto difettoso nell’alveo della responsabilità per colpa. Ebbene per la normativa vigente e la giurisprudenza prevalente, impone al produttore per andare esente da responsabilità di provare almeno uno dei fatti esimenti, ovvero, il verificarsi di una delle ipotesi liberatorie previste all'articolo 118 cod. cons. La norma è infatti proprio rubricata “Esclusione della responsabilità” individuando la stessa, mediante un’elencazione per lettere (dalla A alla F), le cause che esimono il produttore dalla responsabilità per i danni da prodotto difettoso. Alle quali va inoltre aggiunta quella prevista dall’art. 122, comma 2, cod. cons. che esclude il risarcimento, anche nell’ipotesi aggiuntiva rispetto a quelle previste dall’art. 118 cod. cons., in cui il danneggiato sia stato consapevole del difetto e del pericolo che poteva derivare dal prodotto e ad esso si sia volontariamente esposto (Cass. Sez. III, 14 giugno 2005, n. 12750). Orbene, tornando alla variegata casistica delle cause di esclusione della responsabilità di cui all’art. 118 cod. cons. quella che ha dettato maggiori difficoltà interpretative, e richiamata nella sentenza in oggetto, è proprio la lettera e) a tenore della quale “ La responsabilità è esclusa: se lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare il prodotto come difettoso ”, c.d. “ rischio da sviluppo ”. Esimente questa di natura “relativa”, in quanto, ad essa può attribuirsi una portata più o meno severa. A quest’ultima e più stringente lettura sembra aver aderito la Corte di Giustizia Europea, che chiamata ad esprimersi sul punto ha affermato che il parametro da considerare, ai fini dell’esclusione della responsabilità, debba essere proprio lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche comprensivo del livello più avanzato esistente al momento della commercializzazione del prodotto e non, invece, i soli standard di sicurezza in uso nel settore in cui opera il produttore (la direttiva comunitaria di riferimento in materia è la 85/374/CE). Ebbene, quanto sin qui esposto circa la natura presunta e non oggettiva della responsabilità per danni da prodotto difettoso merita una precisazione onde evitare d’ingenerare dubbi nel lettore: il sopra richiamato art. 122 cod. cons. rinviando espressamente al dettato dell’art. 1227 c.c. in materia di concorso colposo del danneggiato non tradisce quanto sin qui affermando evocando il principio della responsabilità per colpa, in quanto essa afferisce esclusivamente alla sfera del consumatore, non certo scalfisce la natura della responsabilità del produttore come sopra esposta. Infine, per completezza espositiva, si richiamano inoltre il dettato normativo di cui all’art. 123 cod. cons. che consente l’individuazione del danno risarcibile, rispettivamente quello fisico e quello materiale, presupponendone l’uso privato ed in caso di danno a cose una limitazione imposta dalla franchigia prevista al comma secondo dell’articolo citato; nonché, il richiamo all’art. 125 e 126 cod. cons. che disciplinano i termini di prescrizione triennale e decadenza decennale del diritto al risarcimento. OSSERVAZIONI : La ratio sottesa al regime della responsabilità del produttore per danni da prodotti difettosi è regolata dal nostro legislatore, alla luce delle considerazioni suesposte, secondo una visione relativista e non prettamente severa la quale supportata dalla natura presunta di una siffatta responsabilità, come sostenuta in giurisprudenza, fa chiaramente emergere un duplice versante di interessi che non possono essere sacrificati uno a discapito dell’altro imponendosi pertanto la necessità di controbilanciare queste due esigenze che constano rispettivamente, da un lato nel garantire la tutela del consumatore, quale soggetto debole del rapporto e dall’altra, di non veder sacrificato e conseguentemente bloccato il progresso tecnologico del settore produttivo per eccessivo accanimento nei confronti dei produttori. Si consideri, in tal senso, come sia assolutamente pacifica la natura extracontrattuale della responsabilità del produttore in quanto tale prescindente da qualsiasi rapporto negoziale tra produttore e consumatore. Approfondimenti dottrinali: - In ambito sovranazionale: “La sicurezza dei prodotti e la responsabilità del produttore” di Enrico Al Mureden, p. 141 ss. - In ambito nazionale: “ La responsabilità per danno da prodotto difettoso” di Graziuso Emilio, pag. 26 ss. - “ Manuale di diritto civile” di Giuseppe Chinè, Marco Frantini e Andrea Zoppini, p. 2330 ss. Approfondimenti giurisprudenziali: - Cass. Civ., Sez. III, del 29 maggio 2013, n. 13458, Giustizia Civile 2013, 10, I, 1979; - In senso conforme: Cass. civ. n. 12665 del 2013, Cass. civ., sez. III, 15 marzo 2007 n. 6007; - Giudici di merito: sulla responsabilità extracontrattuale: Tribunale Sassari, 12 luglio 2012.
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Scuola superiore di studi giuridici Alma Mater Studiorum - Università di Bologna - 5/2019Corso di formazione per gestori della crisi da sovraindebitamento
La suocera “impicciona” e la rottura del “fidanzamento ufficiale”: la frontiera al risarcimento del danno.
Pubblicato su IUSTLABDi Stefano Parma, Avvocato Tribunale di Roma, Sez. I, 12 gennaio 2015 Risarcimento del danno MASSIMA: La promessa “ semplice ” di matrimonio (qualificabile come mero fatto sociale e non produttiva di alcun effetto giuridico diretto) non costituisce fonte di risarcimento del danno in caso di rottura ingiustificata della stessa, in quanto la fonte di possibile responsabilità risarcitoria è solo quella derivante dalla c.d. promessa “solenne”, di cui all’art. 81 cod. civ., soggetta a determinati requisiti ovvero la vicendevolezza, la capacità di agire dei promittenti, la formazione di un atto pubblico o di una scrittura privata o la richiesta di pubblicazione di matrimonio. IL CASO: Dopo sedici anni di fidanzamento il sig. M.C. conveniva in giudizio la sua ex fidanzata, la sig.ra R.R. e i di lei genitori, il sig. U.R. e la sig.ra V.C., al fine di chiederne la condanna in solido per i danni, patrimoniali e non patrimoniali, allo stesso occorsi a seguito della rottura ingiustificata della promessa di matrimonio da parte della sig.ra R.R.. L’attore addebitava la fine del fidanzamento alle continue ingerenze della sig.ra V.C., futura suocera, nella vita di coppia dei due fidanzati mediante continue illecite intromissioni che andavano a generare avversione inducendo la figlia, R.R. a cambiare opinione sul progetto di vita comune dei due fidanzati ledendo così le aspettative matrimoniali dell’attore provocando allo stesso un profondo stato depressivo. I convenuti si costituivano dinnanzi al Giudice di Pace di Roma rilevando, preliminarmente, l’incompetenza del giudice adito e, nel merito, il rigetto delle domande, formulando domanda riconvenzionale di risarcimento del danno per gli atti persecutori posti in essere dall’ex fidanzato sig. M.C. nei suoi confronti, nonché, per le ingiurie e diffamazioni subite Il Giudice di Pace di Roma dichiarava la propria incompetenza a favore del Tribunale di Roma, assegnando alle parti termini per la riassunzione. La causa veniva poi riassunta dai convenuti nei termini previsti innanzi al Tribunale di Roma. Ammesse le prove come richieste dalle parti, disposto l’interrogatorio formale del sig. M.C. ed escussi i testi la causa veniva trattenuta in decisione. In motivazione: Il tribunale di Roma, respinta l’eccezione preliminare avanzata da M.C. d’incompetenza per valore, affermava nel merito: “ La promessa di matrimonio, contemplata dagli artt. 79-81 cod. civ., si identifica, alla stregua del costume sociale, nel cosiddetto fidanzamento ufficiale, e sussiste, cioè, quando ricorra una dichiarazione espressa o tacita, normalmente resa pubblica nell’ambito della parentela , delle amicizie e delle conoscenze, di volersi frequentare con il serio proposito di sposarsi, affinché ciascuno dei promessi possa acquisire la maturazione necessaria per celebrare responsabilmente il matrimonio, libero restando di verificare se questa venga poi conseguita in se stesso e nell’altro e di trarne le debite conseguenze. Nell’ambito di detta promessa, si distingue quella di tipo solenne, di cui all’art. 81 cod. civ., soggetta a determinati requisiti (vicendevolezza, capacità di agire dei promittenti, atto pubblico o scrittura privata o richiesta di pubblicazioni di matrimonio), e produttiva di una situazione di affidamento, fonte di possibile responsabilità risarcitoria, da quella di tipo semplice, non soggetta ad alcun requisito di capacità o di forma, qualificabile come mero fatto sociale, e non produttiva di alcun effetto giuridico diretto, tenuto conto che la restituzione dei doni, prevista dall’art. 80 cod. civ., non deriva dalla promessa, ma dal mancato seguito del matrimonio” Riportandosi alla giurisprudenza così richiamata il Tribunale di Roma rigettava le domande di risarcimento danni avanzate dal sig. M.C. nei confronti dei convenuti. In particolare nei confronti dell’ex fidanzata l’Organo giudicante riteneva non provata da parte dell’attore l’esistenza di una formale promessa di matrimonio, né di obbligazioni ad essa eventualmente correlate. Allo stesso modo riteneva non dimostrato il danno dallo stesso subito per la cessazione della breve convivenza more uxorio tra i fidanzati, non avendo il sig. M.C. provveduto ad allegare la presenza di comportamenti della sig.ra R.R. tali da integrare illecito endofamiliare. Parimenti, il Tribunale rigettava la domanda di condanna al risarcimento del danno a carico dei genitori della sig.ra R.R. per avere gli stessi provocato la frattura del vincolo sentimentale tra l’attore e la loro figlia per indeterminatezza delle condotte contestate, rimanendo tali addebiti sforniti di qualsivoglia sostegno probatorio. Diversamente veniva accolta la domanda riconvenzionale avanzata dall’ex fidanzata convenuta per i comportamenti vessatori e ingiuriosi del sig. M.C. successivi alla cessazione del fidanzamento con condanna dello stesso anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c. QUESTIONE: La questione in esame è la seguente: è giustificata la richiesta di risarcimento del danno, patrimoniale e non, avanzata nei confronti della propria ex fidanzata, per la rottura ingiustificata di un fidanzamento conclusosi anche per le continue ingerenze della futura suocera? LE SOLUZIONI GIURIDICHE: La disamina della sentenza in commento trae origine da un fondamento costituzionale qual è il matrimonio (art. 29 Cost.) dal quale l’ordinamento fa discendere in capo ai coniugi precisi doveri e relativi obblighi (art. 143 c.c.). Ebbene, data l’importanza del matrimonio e le conseguenze giuridiche che ne discendono il legislatore ha garantito alle parti la massima libertà di consenso sino al momento della celebrazione (art. 79 c.c.) prevedendo espressamente e tassativamente le eventuali conseguenze patrimoniali in caso di mancato adempimento di cui agli artt. 80 e 81 c.c. Orbene, prima di affrontare la questione giuridica sottesa alla pronuncia oggetto della presente disamina, è necessario preliminarmente dare contezza dei distinguo tra la promessa di matrimonio c.d. “semplice” e quella cosiddetta “solenne”. Per fidanzamento ufficiale, infatti, s’intende il mutamento di status tra due soggetti, i quali non ancora maturi per celebrare il matrimonio decidono di rendere ufficiale il proprio fidanzamento dinnanzi a parenti, amici e conoscenti rendendo una dichiarazione priva di formalità ed in assenza di precisi e peculiari requisiti con la quale dichiarano di volersi frequentare con il serio proposito di sposarsi una volta acquisita la maturazione necessaria per celebrare responsabilmente il matrimonio. In altre parole, il nostro ordinamento qualifica il fidanzamento ufficiale come mero fatto sociale, improduttivo di alcun effetto giuridico diretto. Tale qualificazione esclude, pertanto, che si possa parlare di un risarcimento del danno in senso proprio, in quanto la norma accorda al promesso esclusivamente la restituzione di eventuali doni dati in ragione della futura celebrazione del matrimonio al mancato seguito dello stesso per volontà dell’altro. In tal senso si pone il disposto di cui all’art. 80 c.c. che legittima, entro il termine decadenziale di un anno dal giorno del rifiuto di celebrare il matrimonio oppure dalla morte di uno dei promittenti, il diritto del promesso alla restituzioni dei doni ove l’altro interrompa il fidanzamento; intendendosi doni, quei beni che non potrebbero trovare altra giustificazione al di fuori del fidanzamento. Diversa dalla promessa di matrimonio semplice, è quella c.d. “solenne” intendendosi tale, ai sensi dell’art. 81 c.c., quella assoggettata a determinati requisiti e produttiva di una situazione di affidamento tra i promessi. Ebbene, i requisiti previsti ex lege attengono, prodromicamente alla capacità di agire dei promittenti, ciò presupposto, viene richiesta la reciprocità delle promesse dei nubendi ed, infine, non per importanza la formalità delle stesse, le quali devono essere fatte o per atto pubblico o per scrittura privata da persona maggiore d’età o dal minore su autorizzazione del Tribunale (art. 84 c.c. ove ricorrano gravi motivi e congiuntamente la maturità psico-fisica del minore) o ancora risultare dalla richiesta della pubblicazione del matrimonio. Orbene, la promessa che risponda a tali requisiti è considerata, ai sensi dell’art. 81 c.c. idonea ad ingenerare una situazione di affidamento nell’altro, pertanto ove uno dei nubendi, decidesse di rifiutare senza un giusto motivo le nozze, un siffatto contegno sarebbe lesivo della buona fede e pertanto fonte di possibile responsabilità risarcitoria limitatamente alle spese fatte ed alle obbligazioni contratte in vista della celebrazione. Pertanto, secondo le norme codicistiche solo l’ingiustificato rifiuto a contrarre matrimonio quando vi sia stata formale promessa di matrimonio giustifica il risarcimento, specificandone, però un regime restrittivo; lo stesso risarcimento è previsto anche nell’ipotesi in cui il giusto motivo del rifiuto trovi la propria giustificazione nella condotta colpevole di uno dei promessi. Si sottolinea inoltre che il dettato normativo prevede un termine di prescrizione del diritto risarcitorio in un solo anno a decorrere dal giorno del rifiuto della celebrazione del matrimonio. OSSERVAZIONI: La ratio sottesa al regime risarcitorio restrittivo e ai termini prescrizionali brevi di cui all’art. 81 c.c. è ravvisabile pertanto nella volontà del legislatore di garantire alle parti la completa libertà nel compimento di un atto personalissimo quale quello di contrarre il matrimonio. In tal senso la responsabilità risarcitoria si può configurare solo ove si sia ingenerato seriamente nell’altro promesso un’aspettativa di celebrazione del matrimonio, integrandosi in tale ipotesi la violazione di regole di correttezza e di auto responsabilità. Tale dettato normativo mostra, pertanto, un bilanciamento tra l’eccessiva pressione in cui sarebbe occorso il promittente ove in caso d’ingiustificato rifiuto lo stesso sarebbe chiamato a rispondere alla luce dei principi generali del sistema risarcitorio civilistico tipico (responsabilità contrattuale o extra-contrattuale) con la posizione del promittente che subisce il recesso ingiustificato il quale si troverebbe privo di qualsivoglia tutela se non gli venisse riconosciuto un risarcimento seppur limitato alle“ spese fatte e per le obbligazioni contratte a causa di quella promessa”. Si precisa che in tale previsione risarcitoria rientrano per giurisprudenza costante oltre alle spese strettamente connesse alla futura cerimonia vengono ricomprese anche tutte quelle assunte in ragione dell’instauranda comunione materiale e morale. Dal tenore letterale pertanto non sono invece risarcibili voci di danno patrimoniale diverse da queste e men che mai gli eventuali danni non patrimoniali andando la risarcibilità di tali diverse voci a ledere la stessa ratio dell’istituto. Un breve cenno deve essere speso anche alla luce di un’apertura progressiva del nostro sistema risarcitorio all’illecito endofamiliare, intendendosi tale la violazione di doveri familiari e genitoriali, ravvisabili a fronte di una condotta violativa di siffatti doveri (artt. 143 e 160 c.c.) ove non vi sia diversamente prevista una misura tipica dal diritto di famiglia; acquisizione recente e tuttora controversa nella giurisprudenza sia di merito che di legittimità ove in particolare si tratti di ipotesi di convivenza more uxorio. La questione attiene, pertanto, alla risarcibilità extracontrattuale nell’ambito dei rapporti familiari a fronte dell’ammissione in via generalizzata della tutela risarcitoria in ipotesi di lesione di diritti fondamentali della persona alla luce dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. (Sezioni Unite Corte Suprema n. 26972 del 2008) Anche in ambito familiare, pertanto, si può parlare di risarcimento del danno non patrimoniale ove vengano poste in essere condotte che per la loro intrinseca gravità si pongano come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona (Cass. Sez I, 10 maggio 2005, n. 9801). Pertanto, l’interruzione della convivenza, quando come nella fattispecie considerata non sia accompagnata da condotte violente, ingiuriose, diffamatorie o che offendano beni costituzionalmente protetti, non è di per sé titolo per pretese risarcitorie. Approfondimenti giurisprudenziali: Sulla natura di obbligazione ex lege del dovere risarcitorio ex art. 81 c.c. : Cass., 15 aprile 2010, n. 9052; Trib. Bari, 28 settembre 2006. Sulla non risarcibilità del danno non patrimoniale : App. Milano, 25 giugno 1954; Trib. Milano, 29 marzo 1963; Trib. Roma, 27 luglio 1963; Trib. Bari, 28 settembre 2006; Trib. Torino, 29 gennaio 2009 .
IL DANNO CATASTROFICO: la rivincita della personalizzazione del danno non patrimoniale sul metodo tabellare
Pubblicato su IUSTLABDi Stefano Parma, Avvocato Cass. Civ., Sez. III, sent., 26 giugno 2015, n. 13198. Criteri di liquidazione del danno non patrimoniale MASSIMA : In caso di incidente stradale che conduce alla morte non immediata della vittima, i Giudici, nella liquidazione del danno “ catastrofico ”, non possono rifarsi a meri criteri tabellari, ma devono prendere in considerazione ' l'enormità ' del pregiudizio subito dalla vittima deceduta , giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte. IL CASO : La presente pronuncia trae il proprio principio di diritto dal seguente caso concreto: il Sig. D.R.G. provocava alla guida dell’autovettura assicurata con l'assicurazione Abeille, un sinistro stradale, nel quale C.E. riportava lesioni personali gravissime alle quali, a distanza di tre giorni, seguiva la morte. Il C.A. e D.V.I. in qualità di genitori del defunto C.E. e le di lui nonne, convenivano in giudizio D.R.G. e la Abeille assicurazioni Spa al fine di ottenerne la condanna solidale al risarcimento dei danni, patrimoniali e non. La corte di Appello di Milano, quale giudice del rinvio chiamato a liquidare il danno biologico terminale maturato dalla vittima nei tre giorni di agonia precedenti al decesso, determinava il quantum in una somma “meramente simbolica”, ovvero, nella cifra di Euro 1.000 in luogo dei 100.000 richiesti dai ricorrenti a titolo di danno biologico terminale subito dal loro congiunto. A fronte dell ’esiguità della somma liquidata, gli eredi della vittima proponevano ricorso per Cassazione. La Suprema Corte, chiamata ad esprimersi sul punto, ribadiva in primis il principio di diritto portato dalla sentenza del 17 gennaio 2008, n. 870 (Presidente Preden Roberto, Relatore Durante Bruno) a tenore della quale: “ la lesione dell’integrità fisica con esito letale, intervenuta immediatamente o a breve distanza dall’evento lesivo, non è configurabile come danno biologico , giacché la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma incide su diverso bene giuridico della vita, a meno che non intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni subite dalla vittima del danno e la morte causata dalle stesse , nel qual caso, essendovi un’effettiva compromissione dell’integrità psico-fisica del soggetto che si protrae per la durata della vita, è configurabile un danno biologico risarcibile in capo al danneggiato, che si trasferisce agli eredi, i quali potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante “iure hereditatis ”. In altre parole, ove la morte segua immediatamente o quasi all’evento lesivo, la Corte esclude la configurabilità del danno biologico mancando il vulnus al bene giuridico salute, viceversa, ove intercorra un apprezzabile lasso di tempo, andandosi così a concretizzare la compromissione dell’integrità psico-fisica della vittima, è ammesso il diritto al risarcimento del danno e la conseguente trasmissibilità agli eredi (ex plurimis Cass. 21.7.2004, n. 13585; Cass. 21.2.2004, n. 3549). A fondamento di tale ragionamento si pone la considerazione, oramai consolidata in giurisprudenza, per la quale la salute e la vita rappresentano due beni giuridici distinti (cfr. Cass. 13.1.2006, n. 517). Queste le premesse alla questione giuridica oggetto della pronuncia. LA QUESTIONE : nel caso in cui al danno biologico terminale si possa sommare una componente di sofferenza psichica (ovvero il cd danno catastrofico), è possibile la sola meccanica applicazione dei criteri tabellari o è necessario fare una personalizzazione di tale danno vista l’enormità del pregiudizio che sebbene temporaneo, è massino nella sua entità ed intensità tanto da esitare nella morte? In motivazione, la sentenza oggetto della presente disamina stabilisce che: “in caso di sinistro mortale, che abbia determinato il decesso non immediato della vittima , al danno biologico terminale , consistente in un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell’evento lesivo fino a quella del decesso), può sommarsi il danno catastrofico, ovvero una componente di sofferenza psichica , sicché, mentre nel primo caso la liquidazione può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea, nel secondo la natura peculiare del giudizio comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro , che tenga conto della “ enormità ” del pregiudizio, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte (Cass. n. 23183/14; n. 18163/07; n. 1877/06)” LE SOLUZIONI GIURIDICHE : Prima di affrontare la tematica che ha costituito il fulcro della pronuncia oggetto della presente disamina è necessario, per completezza espositiva e alla luce del richiamo, in incipit , della sentenza Cassazione Civile del 17 gennaio 2008, n. 870, dare contezza del vivace e corposo dibattito che si è consumato attorno alla risarcibilità del danno da perdita della vita. Orbene, ad oggi, anche a seguito della recentissima sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 22 luglio 2015, n. 15350 sembra ormai granitico l’orientamento giurisprudenziale che nega la risarcibilità del c.d. danno tanatologico o da morte immediata, che proprio per l’istantaneità del decesso e il bene giuridico tutelato, ovvero la vita, ha comportato i necessari distinguo da tipologie che, prima facie affini, venivano diversamente tutelate dalla Suprema Corte e delle quali si ammette, oggi, la tutela risarcitoria: il danno biologico terminale e il danno catastrofico. Ebbene, per danno biologico terminale s’intende il pregiudizio alla salute patito dalla vittima di un illecito nel periodo che separa il momento della lesione da quello del decesso ponendo a fondamento della richiesta di ristoro per i danni subiti che la vittima sopravviva per un considerevole lasso si tempo, ad un evento poi rilevatosi mortale, in quanto poche ore o persino mezzora sono tempistiche talmente brevi da ritenersi inidonee a consentire una scissione logica tra il momento della lesione alla salute e il vulnus inferto al bene vita. In tale lasso “ considerevole ” di tempo, la vittima deve aver sofferto una lesione della propria integrità psicofisica medicalmente accertabile e pertanto liquidabile alla stregua dei criteri adottati per la liquidazione del danno biologico vero e proprio (in tal senso Cass. Sez. III, 13 dicembre 2012, n. 22896). La risarcibilità di tale pregiudizio, ormai pacificamente ammessa fa sorgere in capo al soggetto leso, poi defunto, un diritto al risarcimento trasmissibile agli eredi che, consistendo in un danno biologico da invalidità temporanea totale, è liquidabile sulla base delle relative tabelle. Tali parametri tabellari, essendo prefissati in astratto, hanno il vantaggio di garantire, da un lato, la prevedibilità della liquidazione del danno mentre dall’altro il difetto di fornire solo un’uguaglianza apparente in spregio al principio di diritto che fissa la necessaria tendenza ad una quantificazione del danno non patrimoniale che tenda al ristoro integrale del nocumento patito. Ciò detto, per evitare il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega (come sopra evidenziato mediante la recentissima sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite del 22 luglio 2015) la risarcibilità del danno tanatologico, ovvero, del pregiudizio al diritto alla vita sofferto dalla vittima nel caso di morte immediata, si ammette il ristoro del c.d. danno catastrofico , intendendosi tale il danno che, per via della peculiare intensità, è detto catastrofico, in quanto posto a carico della psiche della vittima che lucidamente attende in agonia la propria fine . In altre parole viene in rilievo ai fini risarcitori una sofferenza di elevata intensità, forza e drammaticità da involgere ed impattare sulla psiche della vittima. Ciò detto, entriamo nel cuore della questione avendo presenti due considerazioni, ovvero, l’impianto teorico elaborato in giurisprudenza in tema di danno biologico e l’impianto di tutela risarcitoria civile come accolto dal nostro ordinamento, consistente nella finalità prettamente riparatoria di un vulnus ingiusto, subito e non invece un portata punitiva-sanzionatoria di un comportamento colpevole. Ebbene, ove al danno biologico terminale si sommi il c.d. danno catastrofico, ovvero quella componente di sofferenza psichica (che è idonea ad incidere sulla psiche della vittima la quale lucidamente attende consapevolmente la propria morte), è massimo nella sua intensità ed entità, proprio per la sua natura, strettamente soggettiva e personale, non può, a parere della Suprema Corte, essere ricondotta alla meccanica applicazione dei criteri tabellari, i quali per quanto dettagliati, sono predisposti per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità, temporanee o permanenti, di soggetti che sopravvivono all’evento dannoso (Cass. Civ., Sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23183). Tale peculiare sofferenza impone, a parere della Suprema Corte, modalità di liquidazione del danno impossibili da ricondurre a dati ripetibili e costanti proprio in quanto investono la psiche della vittima e per loro natura inidonei ad essere imbrigliati in sistemi tabellari. Tali considerazioni impongono pertanto una personalizzazione del danno, elevatosi oggi dopo le Sentenze San Martino del 2008, a “ faro ” della quantificazione del danno non patrimoniale, a ciò aggiungendo la Suprema Corte, nella pronuncia in oggetto, la necessità di liquidare l’ulteriore danno catastrofico, per le sue peculiarità e soggettività, sulla base di un criterio equitativo puro la cui applicazione sia volta a cogliere e risarcire a dovere l’” enormità ” del nocumento patito dalla vittima che consapevole attende in agonia la propria morte. OSSERVAZIONI: Per una corretta liquidazione del danno catastrofico, ove accertato, la Suprema Corte individua, nella sentenza in commento, il c.d. criterio equitativo puro intendendosi tale un “non criterio”, in quanto, il giudice nel liquidare il danno sarà chiamato ad affidarsi al suo buon senso, in relazione alla valutazione delle peculiarità del caso concreto senza essere vincolato a parametri predeterminati. Siffatta metodologia, però, se da un lato presenta certamente dei lati positivi quali: a) la personalizzazione del danno nel modo più appropriato, b) la valutazione di tutte le particolarità del caso concreto non costringendo a calcoli o complesse operazioni, dall’altro, però, siffatta discrezionalità dell’organo giudicante potrebbe far temere in un arbitrio del giudice e nella mancanza di uniformità di trattamento. A bilanciare i pro e i contro di tale criterio si sottolinea però il potere-dovere del giudice di fornire in sentenza un’attenta e dettagliata motivazione in ordine ai criteri della scelta, ai criteri di personalizzazione, dell’iter logico seguito ai fini della determinazione del quantum . La ratio della pronuncia è, pertanto, ravvisabile nella particolare soggettività e personalità del danno subito dalla vittima, nonché, nella precisa volontà di garantire alla stessa (e ai suoi eredi), un risarcimento dell’effettivo nocumento patito che, se accertato, deve essere tutt’altro che irrisorio o meramente simbolico, esito quest’ultimo che certamente si verificherebbe ove ad essere applicato fosse esclusivamente il metodo tabellare. Orbene, la liquidazione del danno catastrofico che deve necessariamente tenere conto della “ enormità ” del pregiudizio subito dalla vittima con applicazione di un criterio cd “equitativo puro” che determini un giusto ed integrale ristoro dei panni patiti. GUIDA ALL’APPROFONDIMENTO: - Marco Rossetti, Il Danno non patrimoniale, Giuffrè, 2010, 244 ss. - Enrico Pedoja, Francesco Pravato, La sofferenza “psicofisica” nel danno alla persona, 2013, 73 ss.
La nuova frontiera delle Unioni di fatto… Il vincolo coniugale passa in secondo piano !!!
Pubblicato su IUSTLABÈ sempre più frequente nel gergo quotidiano l’utilizzo dell’espressione: famiglia di fatto. Ebbene siamo consapevoli di ciò che essa implica a livello giuridico. Seppur i risvolti socio-morali che avvolgono siffatto nuovo istituto siano i più disparati una corretta qualificazione giuridica non è stata altrettanto pacifica. Per famiglia di fatto, oggi, s’intende diversamente da quella c.d. legittima (che trova fondamento nel matrimonio) un rapporto di convivenza stabile e duraturo tra due persone, con o in assenza di figli, che seppur non unite da un vincolo di coniugio instaurano tra loro L’evoluzione del concetto di famiglia ha portato con sé l’emersione di espressioni linguistiche quali “convivenza more uxorio” e le “ unioni di fatto ” che entrate a far parte del linguaggio quotidiano meritano una riflessione; non può infatti che evidenziarsi l’evoluzione storico-giuridica che esse portano con sé. L’ excursus storico comporta nel lettore sempre un principio di sbadiglio e di sonnolenza, che lo scrittore di un articolo che ha lo scopo d’intrattenere rifugge con grande vigore. Con ciò, voglio solo premettere che la concezione in senso stretto di famiglia (c.d. legittima) ha conosciuto la propria riforma copernicana cambiata nell’avvento della Carta Costituzionale, che al contrario di ciò che molti sostengono tutto è, fuorché, statica. Infatti, l’art. 2 Cost. quale “clausola aperta” dei diritti inviolabili dell’uomo adeguandosi all’evolversi dei tempi è da considerarsi perno e fautrice di una siffatta svolta. “ Tutto cambia tutto si trasforma nulla si distrugge ”: tale principio scientifico della materia è applicabile anche al diritto che è espressione sociale di ciò che definiamo regola di comportamento. Le Unioni di fatto presentano significative analogie con la tradizionale nozione di famiglia implicando anch’esse l’esistenza di un’unione stabile e duratura tra due persone fondata su una comunione di vita spirituale e materiale perciò viene sponstaneo chiedersi: esiste, ad oggi, un diritto fondamentale a vivere liberamente una condizione di coppia? Ebbene, sul punto, farei subito notare che l’assenza di una specifica regolamentazione giuridica non ha certo ostacolato l’intervento della dottrina e della giurisprudenza; le stesse, infatti, hanno costituito terreno fecondo al riconoscimento di tale “nuova formazione sociale” dalla quale - proprio per la pregnanza e l’importanza del legame sul quale poggiano - hanno fatto discendere doveri di natura sociale e morale in capo a ciascun convivente nei confronti dell’altro dai quali naturalmente, ed oggi anche giuridicamente , scaturiscono conseguenze. Tali doveri morali e sociali refluiscono sui rapporti anche di natura patrimoniale nel senso - e qui si evidenzia una recente sentenza della Suprema Corte – di escludere il diritto del convivente di ripetere le eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso o in relazione di convivenza (Cass., Sez. I, 22 gennaio 2014, n. 1277), proprio a sancire l’incisività di siffatto vincolo. La giurisprudenza si schiera in tal senso per la natura di obbligazioni naturali! Il presente studio riconosce e dà voce alle Unioni di fatto. E rilancia, sulla scia di quanto pronunciato dalla Corte d’Appello di Milano del 2012, come non ricondurre nella nozione di convivenza more uxorio le coppie omosessuali. Contattateci in materia di famiglia com’è in voga dire “siamo sempre sul pezzo”!
Artroprotesi anca - Un caso di malasanità a Rimini
Rimini - Responsabilità medicaNel luglio del 2014, il sig. P veniva sottoposto ad un intervento chirurgico routinario del tipo "Artroprotesi anca sin" presso il reparto di Ortopedia e Traumatologia del nosocomio di Riccione, Azienda USL della Romagna; Dopo il risveglio dall’intervento, quando gli effetti dell’anestesia affievolivano, il sig. P iniziava ad accusare un’alterata sensibilità all’arto inferiore sinistro, accompagnata da un intenso formicolio e da un forte bruciore che si irradiava dall’esterno del ginocchio sx fino al dorso del piede; Il fastidio si trasformava ben presto in forte dolore, il quale si concretizzava maggiormente sul dorso del piede sinistro, con impossibilità sin da subito di compiere il normale movimento di dorsiflessione del piede; Il male così come descritto dal paziente al risveglio post-operatorio e la limitazione motoria insorta ed immediatamente lamentata al Dott. X, venivano annotate dai sanitari nel suo diario clinico solo il giorno successivo, nel quale si riportava: "Paralisi parziale SPE con interessamento di EPA, TA. [...]". A seguito della paralisi il Sig. P si rivolgeva allo Studio Legale Parma il quale lo assisteva in ogni fase del procedimento Per il caso del Sig. P. grazie all'intervento dello Studio Legale Parma e alla rete di professionisti medici specialisti e medici legali, è stato ottenuto il riconoscimento della responsabilità medica e un risarcimento di 173.000 €.
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Lo studio
Stefano Parma
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