Ho seguito cause civile di ogni tipo, dalle ATP a cause di merito con escussioni testimoniali molto lunghe e difficoltose. Ho spesso discusso in sede agraria (sia in sede stragiudiziale, anche in AVEPA o presso le associazioni di categoria, che in sede giudiziale, presso il Tribunale di Verona), Ispettorato del lavoro, conciliazioni sindacali e mediazioni in genere.
Informazioni generali
Particolare esperienza in diritto del lavoro, diritto agrario, procedimenti d'urgenza e recuperi crediti. Disponibile anche per sostituzione udienza, depositi e ritiri in Cancelleria e Unep, oltre a conservatoria per trascrizione DI o pignoramenti immobiliari.
Esperienza
Oltre al deposito di istanze e gestione del proseguo della causa, seguo anche istanze di fallimento per accesso fondo di garanzia INSP al fine di recuperare le ultime tre mensilità del rapporto lavorativo e TFR. Seguo anche il recupero credito stragiudiziale e giudiziale con esecuzioni mobiliari, pignoramento presso terzi o esecuzioni immobiliari con conseguente trascrizione del titolo in conservatoria di Verona.
Ho effettuato attività di recupero crediti dal 2005, anche collaborando con altri professionisti o società. Specializzata nel recupero credito mobiliare, anche con istanza 492 bis cpc, pignoramento immobiliari con trascrizioni presso la conservatori.
Altre categorie
Pignoramento, Diritto del lavoro, Domiciliazioni e sostituzioni, Diritto agrario, Negoziazione assistita, Eredità e successioni, Diritto commerciale e societario, Diritto assicurativo, Contratti, Diritto tributario, Licenziamento, Diritto sindacale, Diritto amministrativo, Locazioni, Sfratto, Multe e contravvenzioni, Tutela del consumatore, Risarcimento danni, Tutela degli anziani, Privacy e GDPR.
Credenziali
Trattamento dei dati personali
Pubblicato su IUSTLABTrattamento dei dati personali Se ci chiediamo: è risarcibile non solo a favore delle persone fisiche, ma anche a vantaggio delle persone giuridiche o altri soggetti collettivi? La risposta è positiva e trova riscontro ne ll’orientamento della Corte di Cassazione in tale materia ( Corte di Cassazione, Sezione III Civile, con sentenza n. 12929 del 4 giugno 2007 ). Ma se chiediamo il risarcimento del danno per illecito trattamento dei dati personali nei confronti della persone giuridiche, quale potrebbe essere la risposta? Altra fattispecie configurabile astrattamente anche nei confronti di persone giuridiche, ma di limitato riscontro pratico è quella del danno per illecito trattamento dei dati personali. In vero, a tale fattispecie non risulta ad oggi applicabile la nuova disciplina sulla privacy, introdotta dal GDPR 2016/679 e recepita integralmente nel nostro ordinamento giuridico dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101. Più precisamente, in passato, il garante per la protezione dei dati personali con provvedimento n. 262/2012, aveva chiarito che le disposizioni del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, contenente il «Codice in materia di protezione dei dati personali», nonostante le modifiche apportate con D.L. n. 201/2011, trovavano applicazione anche con riferimento alle persone giuridiche. La giurisprudenza sul punto si era, tuttavia, mostrata rigorosa e ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale causato per violazione del diritto alla riservatezza solo qualora tale diritto venga inciso in maniera rilevante, cagionando un pregiudizio serio, che peraltro va debitamente allegato e, seppur per presunzioni, provato. Come, tuttavia, sopra accennato, il d. lgs. n. 196/2003 è stato di recente sostituito a seguito dell'entrata in vigore del d. lgs. n. 101/2018, che ha recepito la nuova normativa in materia di privacy introdotta dal regolamento europeo n. 679 del 2016. Il regolamento europeo, in particolare, nel dettare le norme relative alla protezione dei dati personali, fa espresso riferimento unicamente alle «…persone fisiche…» (art. 1); e ciò, sia nella nozione di "interessato al trattamento dei dati", indentificato per l'appunto, nella persona fisica cui si riferiscono i dati personali oggetto di trattamento, sia in quella di "dato personale", definito come «…qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile…». Con la conseguenza, quindi, che, dalla tutela dei dati personali, sono escluse le persone giuridiche, nonché gli enti e le associazioni. Né è stato diversamente stabilito dal d. lgs. n. 101/2018, che si è limitato unicamente ad adeguare la normativa nazionale alle disposizioni del GDPR, senza prevedere null'altro. In tal senso, peraltro, si è espressa anche la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale «…Il G.D.P.R. - "General Data Protection Regulation" - il quale è entrato in vigore il 24 maggio 2016 ed è diventato direttamente applicabile e vincolante in tutti gli Stati membri a partire dal 25 maggio 2018 - non disciplina in alcun modo il trattamento dei dati che riguardano la persona giuridica (salvo con poche eccezioni), atteso che dalla definizione di "dato personale" e di "interessato" di cui agli artt. 1 e 4 rimane escluso qualsiasi riferimento a persone giuridiche, enti o associazioni…» (T.A.R. Sicilia, 1 ottobre 2018, n. 2020). Di regola, pertanto, nel caso in cui una persona giuridica subisca danni a seguito di un illecito trattamento di dati, non possono applicarsi le disposizioni normative contenute nel GDPR. Tuttavia, sembrano potersi ravvisare talune ipotesi eccezionali, in presenza delle quali sembra potersi riconoscere alle persone giuridiche la possibilità di applicare le disposizioni del regolamento europeo. Si fa, in particolare, riferimento al caso in cui il nome della persona giuridica si identifichi con il nome di una persona fisica ovvero quest'ultimo è nel primo compreso. ovvero al caso in cui i dati – oggetto del trattamento illecito – riguardino una persona fisica. Si comprende, quindi, perché la casistica sul punto sia estremamente ridotta, dovendosi ritenere, le persone giuridiche, oggi escluse dalla normativa sulla privacy. Onere della prova e criteri di quantificazione Com'è noto, la prova del danno non patrimoniale è in tutti i settori particolarmente difficile, stante l'immaterialità del bene oggetto di risarcimento. Ancor più arduo, quindi, appare tale onere rispetto alle persone giuridiche e agli enti in generale, e ciò a causa della loro natura di entità sovraindividuali. La giurisprudenza ha ormai pressoché abbandonato il paradigma del danno in re ipsa, puntualizzando sempre più spesso la necessità di allegazione di circostanze specifiche idonee a supportare la richiesta risarcitoria, anche se, in questo ambito, è inevitabile ammettere il ricorso allo strumento delle presunzioni e alle massime di esperienza (Cassazione civile, sez. I, 10 maggio 2017, n. 11446). Alla questione dell'onere probatorio si lega quella relativa all'individuazione dei criteri per la quantificazione del danno non patrimoniale subito dalle persone giuridiche. Sul punto, dall'analisi dei precedenti giurisprudenziali emerge un solo dato certo, ovvero il ricorso alla liquidazione in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c. Concludendo, le persone giuridiche (società, enti collettivi, associazioni riconosciute, fondazioni, enti pubblici, etc..) possono subire danni a seguito di trattamenti illeciti dei propri dati personali e hanno diritto al risarcimento, se dimostrano il danno subito e il nesso causale con la violazione. Tuttavia, a fronte di una molteplicità di fattispecie, non si possono individuare parametri univoci. In tale contesto, limitando la trattazione a una delle fattispecie più diffuse, vale a dire la lesione dell'immagine a seguito di condotte diffamatorie, si possono segnalare i seguenti indici presi in considerazione dai giudici e, precisamente: la gravità del fatto lesivo, la diffusione del mezzo utilizzato, la notorietà della persona offesa ma anche il comportamento post actum dell'autore della condotta.
Fattispecie di danno delle persone giuridiche. Danno all'immagine.
Pubblicato su IUSTLABIl danno all’immagine rappresenta una delle più rilevanti espressioni del danno non patrimoniale nelle persone giuridiche. Se in passato la giurisprudenza era incline a riconoscere tale categoria esclusivamente in capo alle persone fisiche, l’evoluzione interpretativa – alla luce di un’applicazione costituzionalmente orientata dell’art. 2 della Costituzione – ha esteso la tutela anche agli enti collettivi, affermando la possibilità per questi ultimi di subire pregiudizi risarcibili alla propria identità, reputazione e considerazione sociale. Tra le fattispecie di danno non patrimoniale risarcibile in favore di persone giuridiche va riconosciuta notevole importanza alla figura del danno all'immagine, che può derivare alla società o all'ente sia da condotte penalmente rilevanti, come nel caso di atti diffamatori, sia da illeciti civili e, secondo un'interpretazione ormai pacifica, anche da inadempimenti contrattuali. Nel concetto di danno all'immagine si fa comunemente rientrare la lesione di una pluralità di diritti, per loro natura legati alla personalità umana (diritto al nome, alla reputazione, all'identità, ecc.), che, tuttavia, grazie all'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, sono stati riconosciuti anche in capo alle persone giuridiche. Ai sensi dell’art. 2059 c.c., il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge. Tuttavia, la lettura evolutiva operata dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità ha ampliato tali ipotesi, includendo nel novero dei soggetti tutelati anche le persone giuridiche, ove si tratti della lesione di situazioni giuridiche soggettive equivalenti ai diritti fondamentali della persona umana . Nelle sentenze della Suprema Corte viene costantemente ribadito quanto storicamente affermato nella decisione n. 12929/2007, ovvero che: «Anche nei confronti della persona giuridica e in genere dell'ente collettivo è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica ... che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e fra tali diritti rientra l'immagine della persona giuridica o dell'ente; allorquando si verifichi la lesione di tale immagine, è risarcibile, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi, e se dimostrato, il danno non patrimoniale costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell'ente che esprime la sua immagine, sia sotto il profilo dell'incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell'agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell'ente e, quindi, nell'agire dell'ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l'ente di norma interagisca». Anche per le persone giuridiche, dunque, vengono distinti i due profili, "personale" – laddove si faccia riferimento alla reputazione degli organi che agiscono in rappresentanza e nell'interesse della persona giuridica, e quello "commerciale" – laddove invece si faccia riferimento alla reputazione della società o ente rispetto alla sua sfera di azione. Sul tema, si registrano numerose sentenze di condanna al risarcimento del danno alla reputazione commerciale nei confronti di Istituti bancari per illegittima segnalazione di società commerciali alla Centrale dei Rischi presso la Banca d'Italia. Al riguardo la Suprema Corte ha, precisato che: «la segnalazione di una posizione in sofferenza non può scaturire dal mero ritardo nel pagamento del debito o dal volontario inadempimento, ma deve essere determinata dal riscontro di una situazione patrimoniale deficitaria, caratterizzata da una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione d'insolvenza (Cass. 1° aprile 2009, n. 7958 richiamata in Cass. civ., Sez. I, 9 luglio 2014, n. 15609)». In difetto dei superiori presupposti, la Banca che ha effettuato una segnalazione "affrettata" può essere chiamata a risarcire non solo eventuali danni patrimoniali ma anche il danno non patrimoniale, consistenti nel discredito che deriva dalla segnalazione illegittima. Concludendo possiamo riassumere che i l danno all’immagine costituisce oggi una categoria autonoma di danno non patrimoniale risarcibile anche in capo alle persone giuridiche, ove venga in rilievo la lesione di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. La giurisprudenza ha chiaramente superato l’originario limite del danno morale soggettivo, riconoscendo che la reputazione e l’identità di un ente sono beni immateriali suscettibili di tutela giuridica, anche attraverso il rimedio risarcitorio. In tale prospettiva, assume rilievo centrale non tanto la natura “immateriale” del pregiudizio, quanto la sua incidenza negativa sulla funzione sociale, economica o istituzionale dell’ente leso , con l’effetto di consolidare un’interpretazione ampia e moderna della responsabilità civile in linea con i valori costituzionali.
Nullità del licenziamento nel periodo di prova.
Pubblicato su IUSTLABNelle ipotesi dei CCNL nazionali in cui i lavoratori e le lavoratrici in periodo di prova hanno diritto alle medesime condizioni di trattamento garantito ai colleghi che hanno già superato la prova, potranno ricorrente per la nullità del licenziamo intimato. Questo è un principio fondamentale del diritto del lavoro italiano, che prevede che la situazione di un lavoratore in prova non possa essere penalizzata rispetto a quella di un lavoratore a tempo indeterminato. Alcuni contratti collettivi possono prevedere delle differenze specifiche per i lavoratori in prova, ma queste devono essere giustificate e non possono portare ad un trattamento discriminatorio. Questo è da intendersi sia in termini economici che normativi. In genere, fa eccezione soltanto il congedo matrimoniale, che può non essere riconosciuto ai dipendenti in prova. Un lavoratore che si trova nel periodo di prova non può essere licenziato durante la malattia. Infatti, durante la malattia, i lavoratori hanno diritto a conservare il posto di lavoro (con determinate specifiche temporali definite periodo di comporto): la norma non fa eccezione per chi è stato assunto da poco e si trova ancora nel periodo di prova. L'indennità di malattia è il trattamento economico riservato al lavoratore con riferimento al periodo in cui è impossibilitato a svolgere le proprie mansioni per malattia. Per quanto concerne il dipendente in prova, si applicano anche in questo caso le medesime regole vigenti per gli impiegati che hanno superato il periodo. Nel caso concreto, trattato in studio, il lavoratore ha ricevuto la lettera di licenziamento in data 18.08.2024, proprio durante il periodo di malattia iniziato in data 16.08.2024. Ne consegue che la comunicazione della datrice di lavoro è illegittima. In estrema sintesi, se la costituzione in opposizione avanzata dalla Società-datrice di lavoro potrà essere considerata dal Giudice del Lavoro meramente strumentale e priva di fondamento, potrebbe anche essere rigettata con pieno accoglimento della domande del lavoratore. Nel caso concreto, però il Giudice adito, ha considerato la lettera di licenziamento valida, ma non efficace nel periodo di prova. In concreto, durante la malattia erano sospesi i termini per il licenziamento: la datrice di lavoro ha dovuto risarcire il lavoratore per una somma decisa con equità paragonata ai giorni non lavorati fino alla conclusione del periodo di prova.
Inadempimento del dipendente.
Pubblicato su IUSTLABIl licenziamento per scarso rendimento. Nella ipotesi di contestazione, da parte della datrice di lavoro di inadempimento e/o grave inadempimento il lavoratore potrà ben opporre le sue giustificazioni nelle ipotesi in cui abbia eseguito la sua attività nel rispetto del contratto e come da istruzioni della datrice di lavoro. Qualora il lavoratore, autotrasportatore, non possa scaricare la merce per fatto a lui non imputabile, può effettivamente giustificare correttamente il grave inadempimento qualora riceva una lettera di contestazione, o peggio, subisca un licenziamento per giusta causa. Sul punto preme ricordare che con l’ordinanza n. 10640 del 19 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha specificato gli elementi che devono sussistere per il cd. licenziamento per scarso rendimento, ovvero quello determinato da un grave inadempimento del lavoratore nell’esecuzione della prestazione lavorativa, oggetto di numerosi contenziosi giudiziari. Istituto di matrice giurisprudenziale, il licenziamento per scarso rendimento viene considerato quale una fattispecie di risoluzione del contratto per inadempimento ex art. 1453 c.c. e s.s. e, quindi, pienamente lecita in presenza di un grave inadempimento degli obblighi contrattuali ascrivibile al lavoratore. La Corte specifica che l’inadempimento del dipendente necessita di essere inquadrato alla luce del fatto che il lavoratore subordinato, in forza del contratto di lavoro, si obbliga solamente alla messa a disposizione delle proprie energie nei confronti del datore di lavoro. Ne discende, quindi, che il mancato raggiungimento del risultato prefissato dal datore di lavoro non può costituire, di per sé, un presupposto sufficiente ad intimare il licenziamento per scarso rendimento. Come rimarcato nel provvedimento, la fattispecie in esame richiede, oltre all’elemento oggettivo, anche il configurarsi di un elemento soggettivo, ovvero la colpa del lavoratore. Tale ultimo elemento in particolare, secondo la Cassazione, contraddistingue il licenziamento per scarso rendimento da tutte le altre tipologie di licenziamento fondate sì su circostanze inerenti alla persona del lavoratore, ma non qualificabili propriamente come inadempimenti contrattuali in quanto situazioni che si verificano sul piano oggettivo e che determinano una mera perdita di interesse alla prestazione lavorativa (quali la sopravvenuta inidoneità del lavoratore, la carcerazione, assenza di titolo professionale abilitante etc.). Secondo i giudici di legittimità, quindi, i fattori distintivi del licenziamento per scarso rendimento sono l’espressione di un giudizio negativo nei confronti del lavoratore e la sussistenza di un comportamento riconducibile alla sfera volitiva del dipendente. Nel caso di contestata illegittimità della condotta del dipendente, come la mancata consegna della merce da parte di un vettore senza colpa e per fatto a lui non imputabile non potrà essere oggetto di sanzione disciplinare.
Diritto alla ragionevole durata del processo
Pubblicato su IUSTLABUn danno non patrimoniale ipotizzabile nei confronti delle persone giuridiche è quello relativo alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo. In tal senso si premette che il danno all’immagine rappresenta una delle più significative forme di danno non patrimoniale configurabili in capo alle persone giuridiche. La progressiva apertura della giurisprudenza italiana alla tutela dei diritti inviolabili anche per gli enti collettivi ha determinato un ampliamento delle ipotesi risarcitorie, includendo non solo i casi di lesione della reputazione o dell’identità esterna, ma anche situazioni connesse al diritto alla ragionevole durata del processo, come sancito dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Com'è noto, l'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali statuisce che «Ogni persona ha diritto a un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta... ». Per dare attuazione al citato dettato normativo, la legge 24 marzo 2001, n. 89, nota come legge Pinto, ha regolamentato il procedimento per l'equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo; procedimento azionabile tanto da una persona fisica quanto da una persona giuridica. Sul punto, la Suprema Corte così si è espressa: «La persona giuridica, se non può per sua natura subire dolori o turbamenti, è portatrice dei diritti della personalità compatibili con l'assenza di fisicità, e quindi del diritto all'esistenza, all'identità, al nome, all'immagine e alla reputazione; pertanto, è configurabile in capo alla stessa un danno non patrimoniale per l'irragionevole durata del processo indennizzabile ai sensi della legge 24 marzo 2001 n. 89» (cfr. in tal senso Cass. civ., Sez. I, 2 agosto 2002, n. 11573). Non va però sottaciuto che, sebbene oggi non vi siano dubbi in astratto circa la risarcibilità (rectius indennizzabilità) del danno da irragionevole durata del processo anche in capo alle persone giuridiche, la Cassazione ne ha sempre escluso l'automatismo. Già nella citata sentenza del 2002, rilevava che «l'irragionevole durata del processo può produrre un danno non patrimoniale alla persona giuridica a condizione che il tema del dibattito coinvolga, direttamente o indirettamente, gli indicati diritti della personalità, pregiudicandoli per effetto del perdurare della situazione d'incertezza connessa alla pendenza della causa. Ciò comporta, rispetto alle controversie con oggetto esclusivamente economico, che il danno non patrimoniale per irragionevole durata del processo, mentre è configurabile rispetto alla persona fisica anche sulla base della mera tensione o preoccupazione che comunque detta durata sia in grado di provocare, può essere ravvisato per la persona giuridica solo se risulti un effettivo rifluire del fattore tempo a scapito dei menzionati diritti della personalità di cui anch'essa è portatrice». In pronunce successive, la Suprema Corte, pur consapevole dell'orientamento della Corte di Strasburgo che tende a presumere il danno una volta accertata l'eccessiva durata del processo ha precisato che «in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo ai sensi dell'art. 2 della l. n. 89 del 2001, anche per le persone giuridiche il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell'ente o ai suoi membri; ne consegue che una volta accertata e determinata l'entità della stessa, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che non risulti la sussistenza, nel caso concreto, di circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente» (Cassazione civile, sez. VI, ordinanza 12 marzo 2016, n. 7034). In conclusione il danno all’immagine e, più in generale, il danno non patrimoniale subito dalle persone giuridiche per l’irragionevole durata del processo, trova oggi pieno riconoscimento normativo e giurisprudenziale. Pur in assenza di una soggettività emotiva, gli enti collettivi sono portatori di interessi costituzionalmente rilevanti. La Legge Pinto consente, entro un quadro procedurale articolato e rigoroso, l’ottenimento di un ristoro equo per la lesione subita, garantendo così un bilanciamento tra l’efficienza dell’apparato giudiziario e i diritti fondamentali degli utenti, siano essi persone fisiche o giuridiche.
Domanda al Fondo di Garanzia INSP
Pubblicato su IUSTLABRiporto il caso di un dipendente che si è presentato presso il mio studio perché ha visto respinta la propria domanda al fondo di garanzia INPS: purtroppo, lo stesso non aveva rispetto tutti i termini richiesti dall'inter richiesto dall'INPS. Iniziamo con una domanda, come segue. Se la mia azienda (che non è già stata coinvolta in procedura concorsuale) non ha onorato le ultime tre buste paga ed il TFR (Trattamento di Fine Rapporto) come lavoratore singolo posso accedere al Fondo di Garanzia INSP, ma quali sono i tempi di prescrizione per il deposito della mia domanda? Per la domanda al Fondo di Garanzia INPS, i tempi di prescrizione sono di 5 anni. Questo termine decorre dal deposito del Ricorso per emissione di decreto ingiuntivo, solitamente. Come sappiamo il Fondo di Garanzia INPS interviene per tutelare i lavoratori dipendenti in caso di insolvenza del datore di lavoro, erogando sia una porzione dei crediti di lavoro relativi agli ultimi tre mesi del rapporto lavorativo (spesso l’importo retributivo viene depurato di rol, ferie, etc.), sia il TFR. Quindi, se da un lato è importante presentare la domanda entro questo termine quinquennale per non perdere il diritto alla prestazione, c'è un'importante precisazione da fare al riguardo. Secondo le disposizioni INPS, oltre al termine di prescrizione di 5 anni, esiste un ulteriore requisito temporale: è necessario avviare l'azione esecutiva nei confronti del datore di lavoro entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro (dimissioni o licenziamento). Se non si intraprende questa azione esecutiva entro il termine di 6 mesi, l'INPS può effettivamente respingere la domanda al Fondo di Garanzia, come stabilito dalle circolari INPS sull'argomento (tra le varie v. Circolare numero 70 del 26-07-2023). Sappiate anche che la lettera di intervento legale (o diffida) per il pagamento di quanto dovuto non costituisce “azione esecutiva” come richiesto dall'INPS. Per "azione esecutiva" INPS intende l’intero iter di recupero coattivo, quindi una procedura esecutiva vera e propria, come ad esempio: il ricorso per emissione di decreto ingiuntivo, con il pignoramento mobiliare (ovviamente negativo) e l'istanza di fallimento. La semplice lettera di diffida, anche se inviata tramite un avvocato, è considerata solo un atto stragiudiziale che mette in mora il debitore, ma non costituisce l'inizio di un'azione esecutiva ai fini dell’accettazione della domanda di accesso al Fondo di Garanzia INPS. In conclusione, per soddisfare il requisito dei 6 mesi, è necessario avviare una vera e propria procedura di recupero forzoso del credito attraverso i canali legali appropriati, depositando gli atti presso il tribunale competente. Questo requisito, essenziale per INPS, esiste perché il Fondo di Garanzia interviene in via surrogatoria, cioè subentrando nei diritti del lavoratore, ma solo dopo che quest'ultimo ha dimostrato di aver già tentato il recupero di quanto dovuto dal datore di lavoro con tutti i mezzi a propria disposizione.
Cessazione del rapporto lavorativo: il periodo di prova.
Pubblicato su IUSTLABSi riporta un caso pratico di un’azienda cliente presso il nostro studio. La società ha assunto un nuovo lavoratore, con periodo di prova, per la mansione di autista, livello C3 (contratto collettivo nazionale Spedizioni Trasporto e Logistica). Nel nostro caso il lavoratore, durante il periodo di prova si ammala. La malattia inizia successivamente ad una lettera di contestazione da parte della società. La datrice di lavoro non attende la conclusione della prova (a settembre 2024) e invia immediatamente, durante il periodo di malattia, la lettera di mancato superamento del periodo di prova, indicando una serie di danni cagionati dal dipendente accusandolo di appropriazione di beni aziendali. Al lavoratore erano state inviate lettere di contestazione, rimaste senza risposta. La lettera di mancato superamento del periodo di prova era datata 19.08.2024 ed stata spedita a mezzo posta raccomandata a.r. il giorno 21.08.2024 (ricevuta il giorno 26.08.2024 dal lavoratore). Il dipendente, però, aveva comunicato malattia per ascesso dentario il giorno 16.08.2024 (con certificato telematico di malattia fino al 19.08.2024 e continuazione fino al 23.08.2024). Poi solamente il giorno 24.08.2024 il lavoratore produce nuovo certificato di malattia per trauma da incidente stradale fino al 25.08.2024 con continuazione fino al 02.09.2024. Dobbiamo ricordare che durante il periodo di prova, entrambe le parti (datore e lavoratore) possono recedere senza obbligo di motivazione, anche durante la malattia, salvo diversa previsione del contratto collettivo (CCNL). Il lavoratore in prova è stato legittimamente licenziato anche se in malattia; per quel che riguarda il caso del nostro studio. Perchè alcuni CCNL prevedono la sospensione del periodo di prova in caso di malattia, quindi la decorrenza del termine si "ferma" e riprende dopo la guarigione. Quindi, in assenza di previsioni specifiche, la malattia non blocca il periodo di prova. Questo perchè il “ patto di prova ” è un istituto di matrice contrattuale e finalizzato alla reciproca verifica, di entrambe le parti protagoniste del rapporto di lavoro, circa la convenienza della prosecuzione lavorativa. Spesso è a vantaggio del datore di lavoro perché potrà giudicare l’idoneità fisica e attitudinale del lavoratore a svolgere la prestazione dedotta in contratto. La sua disciplina è contenuta nell’art. 2096 del Codice Civile, il quale prevede che: “ Salvo diversa disposizione [delle norme corporative] l'assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare da atto scritto. L'imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l'esperimento che forma oggetto del patto di prova. Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto., senza obbligo di preavviso o d'indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine. Compiuto il periodo di prova, l'assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell'anzianità del prestatore di lavoro”. Alla luce di quanto stabilito nell’articolo appena menzionato, è opportuno esaminare le varie caratteristiche che il patto di prova deve possedere. Per prima cosa, esso deve risultare da atto scritto, pena la nullità della prova stessa (si tenga conto che normalmente viene inserito in un’apposita clausola posta all’interno del contratto di assunzione dello stesso lavoratore). In secondo luogo, è necessario che il patto di prova contenga l’indicazione delle precise mansioni affidate al lavoratore. L’indicazione potrebbe essere anche per relationem: semplice rinvio alle declaratorie del contratto collettivo che definiscano le mansioni comprese nella qualifica di assunzione (Cass. civ., sez. lav., 25 febbraio 2015, n. 3852 e Cass. civ., sez. lav. 14 gennaio 2022, n. 1099). Per quanto concerne la durata del periodo di prova, essa viene fissata dai diversi Contratti Collettivi di lavoro, e comunque non può eccedere i 6 mesi. Le parti possono anche superare il limite previsto dai Contratti Collettivi, purché sempre nel tetto massimo di 6 mesi, a condizione che l’estensione sia giustificata da una particolare complessità delle mansioni con onere della prova a carico del datore di lavoro. Al termine del periodo di prova, qualora nessuna parte esprime volontà di recedere, la prova si ritiene automaticamente superata e il contratto prosegue in via definitiva, senza che sia necessario provvedere ad alcuna formalità in tal senso. Nel nostro caso il periodo di prova non era finito ed il lavoratore non aveva automaticamente proseguito nel rapporto di lavoro. In conclusione, il Giudice ha ritenuto che il lavoratore fosse cessato correttamente nel periodo di prova.
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Lo studio
Anastasia Fiorio
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