Trattazione giudiziale e stragiudiziale di eventi lesivi patrimoniali e biologici derivanti dalla circolazione stradale. Assisto il cliente dalla richiesta stragiudiziale di risarcimento del danno, sia biologico che materiale, sino alla vertenza giudiziale. Lo Studio difende i propri clienti nei casi di sinistri stradali e, grazie alla collaborazione con affermati professionisti medici legali, offre assistenza a 360 gradi.
Informazioni generali
L’Avvocato Colombo, iscritto all'Ordine Degli Avvocati dall'anno 2003, fornisce consulenza e assistenza nelle seguenti aree di attività: Diritto penale, Diritto civile, Contrattualistica, Assistenza legale settore Automotive, Successioni, Diritto Immobiliare, Locazioni e Affitti, Diritto di famiglia, Separazioni e divorzi, Tutela dei minori, Ricorsi al Giudice Tutelare, Diritto delle Assicurazioni, Risarcimento danni alla persona, Infortunistica stradale, Responsabilità medica, Tutela dell'immagine aziendale, Rimozione recensioni false e/o diffamatorie suoi principali motori di ricerca e/o social network, Recupero crediti.
Esperienza
Si fornisce consulenza, assistenza e tutela quanto ai ricorsi necessari per impugnare le sanzioni amministrative, nonché assistenza nelle pratiche relative al recupero della patente, confisca e fermo del veicolo, ecc.
Mi occupo di contratti, assistenza stragiudiziale ai privati e alle imprese, recupero credito, condomini e risarcimenti danni. Lo spiccato senso pratico nello svolgimento degli incarichi affidati, consente di suggerire e consigliare la strategia migliore e più efficace nel raggiungere il risultato migliore per il cliente.
Altre categorie
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Credenziali
Distacco Centralizzato: La Perizia Tecnica è Obbligatoria per la Legittimità
Pubblicato su IUSTLABIl distacco dall’impianto di riscaldamento centralizzato è un diritto soggettivo del condomino, come stabilito dall'articolo 1118 comma 4 del Codice Civile. Tuttavia, questo diritto non è incondizionato, ma subordinato a una rigorosa verifica: l'operazione deve avvenire senza causare "notevoli squilibri di funzionamento" e, soprattutto, senza generare "aggravi di spesa per gli altri condomini". L'onere di dimostrare l'assenza di tali pregiudizi spetta interamente al condomino che si distacca. La giurisprudenza, confermata da diverse pronunce, inclusa la recente sentenza del Tribunale di Napoli (n. 350 del 14.01.2025), ha chiarito che non è sufficiente una semplice dichiarazione di buon esito da parte dell'impresa installatrice. Nel caso in esame, il Giudice ha rigettato la richiesta di rimborso delle spese versate post-distacco, giudicando la certificazione prodotta "come se non esistesse". Il motivo è semplice: mancavano i calcoli specifici, i riferimenti ai consumi pregressi e le valutazioni sugli squilibri termici. La prova richiesta è, infatti, una perizia tecnica asseverata, redatta da un professionista abilitato (termotecnico), che attesti analiticamente il rispetto dei parametri legali. Senza questo supporto documentale qualificato, l'operazione di distacco è illegittima e contestabile. Un altro aspetto fondamentale riguarda gli obblighi economici che permangono. È errato credere che il distacco porti all'azzeramento dei costi. Il condomino rinunziante rimane comproprietario della centrale termica e delle condutture comuni e, pertanto, deve concorrere a due categorie di spesa: la manutenzione straordinaria (e conservazione dell'impianto) e il consumo involontario. Quest'ultimo copre le dispersioni di calore delle tubazioni condominiali che attraversano l'unità immobiliare. Non pagare tale quota rappresenterebbe un illegittimo aggravio per gli altri condomini. Infine, è tassativamente vietato dalla Corte di Cassazione (ad esempio con l'ordinanza n. 26185/2023) il cosiddetto "distacco passivo". Chi interrompe il collegamento senza installare un autonomo generatore di calore a norma non fa altro che sfruttare l'inerzia termica dell'edificio, raffreddando gli appartamenti adiacenti e realizzando di fatto un "furto di calore" ai danni della collettività condominiale. L'autonomia termica è un diritto, ma va esercitata con responsabilità e, soprattutto, con la dovuta documentazione tecnica a supporto.
Pezzotto, IP e privacy: cosa succede davvero quando DAZN scrive.
Pubblicato su IUSTLABNegli ultimi mesi molte persone hanno trovato nella propria cassetta della posta una comunicazione inaspettata da DAZN: una richiesta di 500 euro per chiudere “bonariamente” una presunta violazione del diritto d’autore legata all’uso del cosiddetto pezzotto, ovvero servizi IPTV illegali. La sensazione comune è stata quella di trovarsi davanti a una sorta di multa, con dubbi immediati su obblighi, rischi penali e responsabilità personali. In realtà, la vicenda è molto più complessa e richiede lucidità. La legge n. 93 del 2023, la cosiddetta “legge anti pezzotto”, ha rafforzato i poteri dell’AGCOM nel contrasto alla pirateria audiovisiva, consentendo il blocco rapido delle trasmissioni illegali. La norma, pur fondata su un principio legittimo – la tutela della proprietà intellettuale – non equipara l’utente finale a chi organizza o trae profitto dalla pirateria. È quindi fondamentale distinguere tra il contrasto ai grandi flussi illeciti e la responsabilità del singolo cittadino. Le lettere di DAZN non sono atti dell’autorità, non sono multe né provvedimenti amministrativi: si tratta di proposte transattive private. Accettarle significa riconoscere implicitamente la propria responsabilità; rifiutarle è un diritto del destinatario. L’azienda, qualora decidesse di procedere in giudizio, dovrebbe provare che quella specifica persona abbia effettivamente fruito volontariamente di contenuti illeciti. Ma un indirizzo IP identifica una linea, non una persona, e può essere condiviso, utilizzato da terzi o alterato. La giurisprudenza, anche penale, ha più volte chiarito che l’IP non è prova sufficiente senza ulteriori elementi concreti e convergenti. Rilevanti anche i profili di privacy. I dati su cui si basano le lettere derivano da indagini della Guardia di Finanza, ma il loro utilizzo da parte di un soggetto privato richiede basi giuridiche autonome e conformi al GDPR. Chi riceve la comunicazione ha il diritto di chiedere a DAZN l’origine dei dati, la finalità del trattamento e la base giuridica; in caso di mancate risposte, può rivolgersi al Garante. La strada corretta per chi riceve la lettera è semplice: niente panico, nessun pagamento immediato, e nessuna rimozione superficiale del problema. Occorre valutare la situazione con un avvocato, richiedere le prove, contestare eventuali incongruenze e far valere i propri diritti. La legalità digitale non può trasformarsi in automatismo intimidatorio: deve restare un equilibrio tra tutela dei contenuti e tutela dei cittadini.
Assegnazione casa familiare: maggiorenne disabile equiparato al minore, ma solo con stabile convivenza (cass. 23443/2025)
Pubblicato su IUSTLABIl tema del mantenimento e dell'assegnazione della casa familiare a seguito di separazione o divorzio si arricchisce di un capitolo cruciale per la tutela dei soggetti più fragili: i figli maggiorenni portatori di disabilità grave. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha progressivamente chiarito che, se per i figli maggiorenni non disabili l'obbligo di mantenimento cessa con il raggiungimento dell'autosufficienza economica o per colpevole inerzia nella sua ricerca, tale diritto permane per i figli che non riescono a raggiungerla senza propria colpa. In questo contesto, l'Ordinanza della Corte di Cassazione n. 23443 del 18 agosto 2025 segna un punto fermo di grande rilevanza pratica. La Suprema Corte ha affermato in modo netto che il figlio maggiorenne con disabilità grave (riconosciuta ex L. 104/1992) deve essere equiparato al figlio minore ai fini della tutela, con tutte le conseguenze che ne derivano. Il principio cardine è la protezione dell'interesse primario del figlio fragile, inteso come diritto fondamentale che prevale sugli interessi patrimoniali dei genitori. Questa equiparazione implica che, in caso di crisi familiare, il figlio disabile conserva il diritto al mantenimento a carico di entrambi i genitori, proporzionalmente alle loro capacità economiche. Inoltre, la casa familiare può essere assegnata al genitore convivente, anche se il figlio è maggiorenne, poiché si applica l'Art. 337-sexies c.c. con un’interpretazione che privilegia la continuità dell’ habitat domestico, superando la mera distinzione anagrafica. La stessa Ordinanza, tuttavia, introduce un limite fondamentale: l'assegnazione della casa non è automatica. La Cassazione, esaminando un caso in cui la figlia disabile grave era stabilmente inserita in una struttura residenziale, ha stabilito che la misura protettiva dell'assegnazione è strettamente legata alla verifica del legame effettivo e attuale tra il figlio, la casa familiare e il genitore che vive in essa insieme al figlio, provvedendo alla sua assistenza. La Corte ha quindi sottolineato che la revoca dell'assegnazione, pur in presenza di un figlio disabile maggiorenne, è legittima se viene meno l'effettiva funzione di "habitat domestico". Non basta la mera possibilità di un futuro rientro. Il giudice deve accertare che la convivenza sia stabile e attuale, garantendo che l'assegnazione risponda all'interesse del figlio e non si trasformi in un vantaggio patrimoniale per il genitore collocatario. L'orientamento della Cassazione 23443/2025 rafforza la tutela del figlio maggiorenne disabile in linea con i principi costituzionali di solidarietà familiare, ma al contempo invita i giudici a un accertamento concreto e rigoroso dell'attualità del legame, assicurando un equilibrio tra la protezione del figlio e i diritti proprietari del genitore non assegnatario.
Rette RSA per malati di Alzheimer o demenza: chi deve pagare? La giurisprudenza dice SSN
Pubblicato su IUSTLABIl tema del pagamento delle rette per i ricoveri in RSA di persone affette da Alzheimer o demenza senile è da anni oggetto di controversie. Tuttavia, la giurisprudenza – a partire dalla Cassazione del 2012 e fino alle più recenti pronunce del 2024 – ha chiarito che tali prestazioni devono essere integralmente a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) , e non dei pazienti o dei loro familiari. Con la sentenza n. 2038/2023 , la Corte di Cassazione ha ribadito che l’assistenza fornita a soggetti gravemente affetti da Alzheimer è da qualificarsi come prestazione sanitaria , ai sensi dell’art. 30 della legge n. 730/1983, in quanto le cure e il sostegno assistenziale risultano inscindibilmente connessi . Di conseguenza, la retta di degenza deve gravare sul sistema sanitario pubblico, anche quando la struttura non sia ospedaliera ma convenzionata o accreditata. La Corte d’Appello di Milano , con la sentenza n. 3489 del 19 dicembre 2024, ha confermato tale orientamento, accogliendo il ricorso degli eredi di una donna affetta da Alzheimer e condannando la RSA a restituire oltre 120.000 euro di rette indebitamente pagate. I giudici hanno sottolineato che il discrimine tra prestazione sanitaria e socioassistenziale dipende dalla condizione clinica del malato , non dalle caratteristiche della struttura. Se le cure sanitarie e assistenziali sono funzionalmente integrate e necessarie per contenere la progressione della malattia, l’intervento deve ritenersi sanitario a tutti gli effetti. Questo principio, già espresso dalla Cassazione n. 4558/2012 , trova fondamento nell’art. 32 della Costituzione: la tutela della salute è un diritto fondamentale e, quando la componente sanitaria è prevalente o inscindibile, l’intera prestazione dev’essere gratuita. Lo stesso indirizzo è stato più volte confermato (Cass. nn. 13714/2023, 25660/2023, 4752/2024, 26943/2024), sancendo che la “prevalenza” delle cure non va intesa in senso quantitativo, ma in termini di necessità terapeutica e integrazione funzionale con l’assistenza. Numerose decisioni di merito (Foggia, Monza, Roma, Firenze) hanno applicato tale principio, imponendo al SSN e ai Comuni la copertura totale o parziale delle rette e riconoscendo ai familiari il diritto alla restituzione delle somme indebitamente versate. Chi ha sostenuto tali spese può dunque agire in giudizio per ottenere il rimborso , configurabile come ripetizione dell’indebito oggettivo ai sensi dell’art. 2033 c.c., entro il termine di dieci anni . La direzione è ormai chiara: per i pazienti affetti da Alzheimer o gravi forme di demenza, l’assistenza in RSA costituisce una prestazione sanitaria integrata , e come tale deve essere garantita – integralmente e senza oneri per le famiglie – dal sistema sanitario pubblico.
Cassazione: legittima la rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare
Pubblicato su IUSTLABLe Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23093 dell’11 agosto 2025, hanno definitivamente riconosciuto la legittimità della rinuncia unilaterale alla proprietà immobiliare , anche per motivi puramente personali, con acquisizione automatica del bene al patrimonio dello Stato ai sensi dell’art. 827 c.c. La decisione trae origine da due giudizi nei quali i proprietari avevano rinunciato, con atto notarile, ai rispettivi immobili ormai privi di utilità economica, gravati da vincoli e oneri tali da renderne impossibile l’uso o la valorizzazione. Il Ministero dell’Economia e l’Agenzia del Demanio avevano impugnato gli atti, sostenendo che nel nostro ordinamento non esisterebbe una facoltà di rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare e che, quindi, tali atti sarebbero contrari alla legge o comunque privi di causa meritevole di tutela. La questione ha riacceso un dibattito antico: da un lato la funzione sociale della proprietà sancita dall’art. 42 Cost., dall’altro il diritto del proprietario di disporre liberamente del bene riconosciuto dall’art. 832 c.c. Con una pronuncia destinata a segnare un punto fermo, la Cassazione ha stabilito che il proprietario può liberarsi del proprio bene immobile mediante un atto unilaterale non recettizio , senza che sia necessario il consenso dell’Amministrazione o che questa possa opporsi. Il rifiuto della rinuncia – spiega la Corte – equivarrebbe a imporre al cittadino un “dovere di restare proprietario” , privo di fondamento costituzionale. L’art. 42 Cost., infatti, non impone la proprietà come obbligo per motivi di interesse generale. La Suprema Corte ha inoltre chiarito che non è sindacabile il fine “egoistico” del proprietario che intenda rinunciare: il giudice non può valutarne la meritevolezza, salvo che il legislatore introduca limiti specifici. L’effetto automatico dell’acquisizione statale è una semplice conseguenza legale della vacanza del bene, e non un elemento che incide sulla validità dell’atto. L’atto di rinuncia deve essere redatto per atto notarile e trascritto nei registri immobiliari , con successiva comunicazione all’Agenzia del Demanio. La sua validità, tuttavia, non dipende da quest’ultima formalità. La Corte ha precisato che la rinuncia non può essere usata come strumento elusivo per sottrarsi a responsabilità pregresse o a obblighi già maturati, come il pagamento di imposte o l’esecuzione di ordinanze di bonifica. Restano, inoltre, esercitabili dai creditori eventuali azioni revocatorie nei confronti del rinunciante. La pronuncia delle Sezioni Unite segna una svolta storica: la proprietà non è più un vincolo ineludibile , ma un diritto liberamente disponibile anche in senso “negativo”. In un’epoca in cui molti immobili perdono valore o diventano fonte di oneri insostenibili, la Corte riconosce al cittadino la possibilità di restituire il bene allo Stato , affermando un principio di libertà proprietaria coerente con la realtà economica contemporanea.
Cappotto termico: le spese spettano a tutti i condomini, anche ai proprietari dei locali interrati
Pubblicato su IUSTLABCon l’ordinanza n. 10371 del 2021, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio ormai consolidato in tema di spese condominiali: gli interventi di coibentazione tramite cappotto termico non possono essere qualificati come opere voluttuarie o gravose, ma costituiscono innovazioni utili, con benefici diffusi per l’intero edificio. Di conseguenza, tutti i condomini sono tenuti a partecipare alle relative spese, in proporzione al valore delle rispettive proprietà, ai sensi dell’art. 1123, comma 1, c.c. Alcuni condomini avevano impugnato due delibere assembleari che ripartivano i costi dell’intervento di isolamento termico dell’edificio, sostenendo che si trattasse di innovazioni voluttuarie e gravose, dalle quali non avrebbero tratto alcun vantaggio, in particolare perché proprietari di locali interrati. Per tali ragioni, avevano invocato l’applicazione dell’art. 1121 c.c., secondo cui i condomini non interessati possono essere esonerati dalla contribuzione. Respinti in primo grado e in appello, i ricorrenti si sono rivolti alla Suprema Corte, lamentando anche che l’onere di provare l’autonomia strutturale dei propri immobili rispetto al resto del condominio fosse stato impropriamente posto a loro carico. La Cassazione ha respinto il ricorso, chiarendo in modo netto che la realizzazione del cappotto termico non può qualificarsi come intervento voluttuario, poiché produce un vantaggio economico oggettivo, consistente nel miglioramento dell’efficienza energetica dell’edificio e, di riflesso, nella riduzione dei consumi. Si tratta, quindi, di un’opera di utilità generale, che beneficia tutti i condomini, inclusi i proprietari di locali interrati o con minore esposizione. Inoltre, il cappotto termico è un’opera non suscettibile di utilizzazione separata, e non destinata a servire solo una parte dell’edificio. L’intervento, una volta eseguito, accresce il valore e il comfort dell’intero stabile, rendendo irrilevante il diverso grado di esposizione o fruibilità dei singoli immobili. La Corte ha anche osservato che le delibere impugnate non erano state contestate per tempo e che la prima di esse, relativa all’approvazione dell’opera, era stata votata all’unanimità: elemento che escludeva la possibilità per i ricorrenti di invocare l’esonero dal contributo ai sensi dell’art. 1121 c.c., che presuppone un espresso dissenso. La pronuncia conferma un principio di equità e razionalità: quando l’intervento migliora l’efficienza dell’intero edificio, le relative spese devono essere sostenute da tutti, senza eccezioni arbitrarie. Il cappotto termico non è un lusso, ma una necessità moderna, incentivata anche da misure fiscali, e i vantaggi che comporta, diretti o indiretti, ricadono su tutto il condominio.
Il nuovo condomino non risponde dei debiti condominiali pregressi: la Cassazione fa chiarezza
Pubblicato su IUSTLABCon l’ordinanza n. 12589 del 2020, la Corte di Cassazione ha stabilito un principio importante per chi acquista un immobile in condominio: il nuovo proprietario non è tenuto a pagare le obbligazioni verso terzi sorte prima del suo ingresso nel condominio. Il caso nasce dal ricorso di un condomino che si opponeva a un precetto da oltre 99.000 euro, relativo all’attività di un avvocato svolta per il condominio tra il 2002 e il 2008. L’immobile, però, era stato acquistato solo nel 2013. Dopo una decisione favorevole in primo grado, la Corte d’Appello aveva ribaltato il verdetto, ritenendo applicabile l’art. 1104 c.c., secondo cui il nuovo acquirente sarebbe solidalmente responsabile con il precedente proprietario. La Cassazione, però, ha accolto il ricorso, chiarendo che i debiti verso terzi – come quelli per prestazioni professionali – non rientrano nei “contributi” menzionati dall’art. 1104 c.c., che si riferisce ai rapporti tra comunisti e non con terzi. Allo stesso modo, l’art. 63 disp. att. c.c., che sancisce la solidarietà dell’acquirente con il venditore per i contributi condominiali, si applica solo alle quote relative all’anno in corso e a quello precedente. Il principio affermato dalla Suprema Corte è chiaro: l’obbligo del condomino di partecipare alle spese sorge solo se egli era già parte del condominio al momento in cui è nato il debito. Per le spese straordinarie, questo momento coincide con la delibera assembleare che le approva; per quelle ordinarie, con l’effettiva esecuzione dei lavori o la prestazione del servizio. In tal senso, la giurisprudenza aveva già chiarito (Cass. n. 24654/2010 e Cass. n. 8782/2013) che, salvo diverso accordo tra le parti, i costi di lavori straordinari spettano a chi era proprietario all’epoca della delibera che li ha approvati. L’acquirente, se costretto a pagare, può comunque agire in regresso contro il venditore. Da ultimo, è utile ricordare che la cosiddetta “liberatoria condominiale” è in realtà un semplice attestato dello stato dei pagamenti, rilasciato dall’amministratore su richiesta. Non ha efficacia liberatoria in senso stretto: solo l’assemblea può esonerare un condomino moroso, e ciò richiede l’unanimità. In conclusione, chi acquista un immobile in condominio non deve temere di rispondere per debiti anteriori alla compravendita, salvo che rientrino nei limiti di tempo previsti dalla legge. La Cassazione, con questa pronuncia, rafforza la tutela dell’acquirente e fa chiarezza su un tema spesso fonte di contenzioso.
Vicini rumorosi: come tutelarsi e cosa dice la legge
Pubblicato su IUSTLABSchiamazzi, musica ad alto volume, feste notturne, rumori fastidiosi durante il riposo o le attività quotidiane: la convivenza con vicini rumorosi può diventare una vera fonte di stress. In questi casi, prima di ricorrere a soluzioni drastiche, è fondamentale tentare un approccio pacifico. Il primo passo consigliato è infatti un confronto diretto con il vicino, spiegando con educazione i disagi subiti. In alternativa, si può inviare una lettera formale o una diffida. Se il dialogo non porta a risultati, per chi vive in condominio è possibile rivolgersi all’amministratore. Il regolamento condominiale, infatti, spesso fissa specifici orari di silenzio e può rappresentare un valido strumento di mediazione. In caso di mancata risoluzione anche in questa sede, si può valutare la tutela civile, chiedendo l'inibitoria dei rumori e, in alcuni casi, un risarcimento per i danni subiti. L’art. 844 del Codice Civile stabilisce che sono vietate le immissioni rumorose che superano la “normale tollerabilità”, un concetto che non ha un valore assoluto ma va valutato caso per caso. Secondo la giurisprudenza, il Giudice deve tener conto del contesto ambientale e della rumorosità di fondo del luogo. Anche in assenza di perizie tecniche, il giudice può basarsi su dichiarazioni, presunzioni e documenti per stabilire se il disturbo è effettivamente intollerabile. Importante anche la possibilità, riconosciuta dalla Corte di Cassazione (ordinanza n. 21621/2021), di ottenere un risarcimento per danni non patrimoniali anche senza una prova tecnica o un danno biologico documentato. È sufficiente dimostrare che le immissioni hanno inciso negativamente sulla qualità della vita familiare e sulle abitudini quotidiane. Questo principio si applica anche nei casi in cui la fonte del rumore sia stata rimossa prima dell’accertamento giudiziario, come avvenuto in una vicenda dove, nonostante l’assenza di rilievi fonometrici, i giudici hanno riconosciuto 5.000 euro di risarcimento per ciascun attore. Sul piano penale, l’art. 659 del Codice Penale sanziona il disturbo del riposo o delle occupazioni causato da rumori idonei a disturbare un numero indeterminato di persone. Non è necessario che tutti siano effettivamente disturbati: basta che il rumore abbia il potenziale di compromettere la quiete pubblica. In conclusione, sebbene la strada giudiziaria sia percorribile, è bene valutarla con attenzione. Non tutti i rumori sono illeciti: occorre dimostrare che superano la soglia della normale tollerabilità. E, soprattutto, prima di rivolgersi a un giudice, è sempre preferibile tentare la via del dialogo e della mediazione.
Condominio: ringhiere, frontalini e sottobalconi, chi paga le spese?
Pubblicato su IUSTLABIn ambito condominiale, la manutenzione dei balconi è spesso oggetto di dibattiti e contenziosi. La giurisprudenza ha chiarito nel tempo la distinzione tra ciò che è di proprietà esclusiva e ciò che rientra nelle parti comuni dell’edificio, con conseguenze dirette sulla ripartizione delle spese. Partiamo dalle ringhiere e dai divisori tra balconi. Secondo la Corte di Cassazione (ordinanza n. 10848/2020), questi elementi, pur facendo parte dei balconi aggettanti (cioè sporgenti dalla facciata), devono considerarsi parti comuni dell’edificio quando contribuiscono al decoro architettonico. In quanto elementi visibili, simmetrici e uniformi per materiali e forma, sono ritenuti essenziali per l'estetica della facciata e, pertanto, le spese per la loro sostituzione devono essere ripartite tra tutti i condomini secondo i millesimi di proprietà. Diversa è la questione della struttura del balcone aggettante . La Cassazione ha stabilito in più occasioni (es. sentenze n. 218/2011 e n. 15913/2007) che i balconi sporgenti sono una pertinenza esclusiva dell’unità immobiliare cui appartengono, non essendo funzionali né all’uso comune né alla struttura dell’edificio. Di conseguenza, le spese per la loro manutenzione ordinaria o straordinaria (come interventi sul piano calpestabile o sulla struttura portante) sono a carico del singolo proprietario. Un'eccezione importante riguarda i frontalini , ovvero la parte frontale del balcone. Se questi elementi hanno valenza decorativa e si inseriscono armonicamente nella facciata dell’edificio, la giurisprudenza – da ultimo il Tribunale di Roma con sentenza n. 915/2021 – li considera beni comuni. In tal caso, la loro manutenzione è a carico del condominio, con ripartizione delle spese tra tutti i condòmini, indipendentemente dal fatto che siano o meno proprietari di balconi. Infine, attenzione particolare va al sottobalcone o cielino , la parte inferiore visibile da chi si trova al piano sottostante. Anche in questo caso, vale la regola generale della proprietà esclusiva: la manutenzione ordinaria è a carico del proprietario del balcone. Tuttavia, se il sottobalcone assume un ruolo decorativo nel prospetto dell’edificio, le spese per il suo restauro si ripartiscono tra tutti i condomini. Va poi precisato che, in caso di danni a terzi causati da distacchi di materiale dal sottobalcone per cattiva manutenzione, la responsabilità – e i costi del risarcimento – ricadono esclusivamente sul proprietario dell’unità immobiliare cui il balcone appartiene. In sintesi, il criterio guida è la funzione: se l’elemento ha scopo decorativo e contribuisce al decoro dell’edificio, è parte comune; se serve esclusivamente il singolo appartamento, resta di proprietà esclusiva, con costi e responsabilità a carico del relativo proprietario.
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Martino Colombo
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