Le questioni inerenti il diritto di famiglia sono particolarmente partecipate , attesa la loro primaria importanza nell'ambito della vita di ciascuno. L'approccio offerto è innanzitutto improntato alla mediazione, ove possibile, e al dialogo, tenendo in considerazione il primario interesse dei minori coinvolti
Vincenzo Di Lorenzo Sarappa
Avvocato, English, Separazioni e Divorzi, Testamenti, Proprietà, Famiglia, Eredità
Informazioni generali
Vincenzo di Lorenzo Sarappa, partner di Studio Legale Sarappa. Esperienza pluriennale in diritto delle successioni, proprietà e diritti reali, diritto condominiale, diritto di famiglia, diritto dell'informatica e della intelligenza artificiale. Fortemente convinto che negoziare e mediare siano un'opportunità per il cliente, in termini di costi, tempi e risultati.
Esperienza
Il diritto delle successioni ereditarie costituisce l'ambito del diritto che ha costruito la base della formazione professionale dello scrivente avvocato, essendo un settore giuridico che impegna particolarmente lo Studio Legale Sarappa.
La fine della vita coniugale rappresenta un momento di ansia, stress e paura per tutti, soprattutto laddove siano presenti figli minori. Per tale motivo la comprensione umana e psicologica del momento rappresenta un aspetto essenziale dell'approccio professionale offerto
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Credenziali
I coniugi in regime di comunione soci esclusivi di società di persone: i diritti del socio che recede
Pubblicato su IUSTLABI coniugi in regime di comunione legale dei beni possono esercitare attività di impresa nella forma della società di persone e i beni conferiti al corpo sociale appartengono al patrimonio della società, sicché il socio che intenda recedervi obbliga la società a procedere alla liquidazione della sua quota, il cui valore va determinato ai sensi dell′art. 2289 c.c., tenuto conto del suo valore patrimoniale al momento dello scioglimento del rapporto sociale. In tale circostanza, infatti, il soggetto imprenditore è la società stessa, unica titolare dei beni, e i diritti del socio receduto, ancorchè coniuge in regime di comunione, si concretano nella liquidazione della sua quota ai sensi dell′art. 2289 c.c.. Con ordinanza del 27 aprile 2020, n. 8222, la I sezione civile della Corte di Cassazione, sulla domanda proposta dal coniuge receduto di accertamento della circostanza "che i beni, gia′ facenti parte del patrimonio della snc, erano di proprieta′ anche dell′attrice e che pertanto andava dichiarata la proprietà comune degli stessi..." , affrontando questioni in materia di corrispondenza tra il chiesto e il pronunziato e valutando in particolare i profli di ultra ed extra petizione della impugnata sentenza, statuisce i seguenti principi di diritto: "Tra i coniugi in comunione dei beni può essere costituita una società di persone, al cui patrimonio appartengono i beni conferiti in società, essendo anche le società personali dotate di soggettività giuridica. Il recesso di un socio comporta l′obbligo della liquidazione, a carico della società, della quota di questi, il cui valore va determinato ai sensi dell′articolo 2289 c.c., tenuto conto del valore patrimoniale della quota al momento dello scioglimento del rapporto sociale; La domanda di accertamento della comproprietà dei beni sociali in capo al socio receduto può essere interpretata dal giudice del merito, ove ne sussistano i presupposti, come domanda di liquidazione della quota sociale. Nel giudizio volto alla liquidazione di quota sociale in favore del socio uscente è legittimata passiva la società, ma l′unico socio superstite può essere convenuto in giudizio sia in nome di questa, sia in proprio, al fine di farne valere la responsabilità per le obbligazioni sociali quale socio illimitatamente responsabile"
Workshop: Better Applying the EU Regulations on Family and Succession Law, Advanced Level
ERA (Acadamy of European Law) - 2/2018Seminario in materia dei regolamenti Europei in tema di Diritto di Famiglia e Diritto delle Successioni
Tutela del legittimario: acquisisce la veste di terzo ai fini probatori qualora invochi la simulata vendita di un bene appartenente al de cuius per tutelare la sua quota di riserva
Pubblicato su IUSTLABIl legittimario che agisca onde far accertare la donazione dissimulata da una compravendita di un bene appartenuto al de cuius, laddove l′azione sia preordinata a far valere una esigenza di tutela della sua quota di riserva, è ammesso a provare la simulazione, nella qualità di terzo, anche attraverso testimoni e presunzioni, senza soggiacere ai limiti fisssati dagli artt. 2721 e 2729 c.c.; in buona sostanza, il legittimario va considerato terzo anche quando, prescindendo dall′effettivo e concreto proponimento dell′azione di riduzione, l′accertamento della simulazione sia finalizzato ad includere il bene oggetto dell′atto simulato nella massa di calcolo della legittima, nel complesso delle operazioni di ricostruzione del patrimonio del de cuius note col nome di riunione fittizia, cosicché, poi, si possa determinare l′eventuale riduzione delle porzioni dei coeredi concorrenti nella successione ab intestato, in conformità del disposto dell′art. 553 c.c.. É quanto affermato dalla Corte di Cassazione, Seconda Sezione Civile, con sentenza dello 09/05/2019, n.12317, nell′affrontare, da un lato, la tematica relativa all′obbligo di integrare il contraddittorio qualora uno stesso soggetto cumuli la veste di parte nonché di erede di altra persona, dall′altro, la tematica inerente ai limiti probatori cui il legittimario soggiace nel caso agisca al fine di dimostrare la vendita simulante donazione di un bene del de cuius. La vicenda analizzata dalla Corte trae origine dalla morte di Tizio, deceduto ab intestato, lasciando a sè succedere i figli nati dal primo matrimonio, il coniuge di seconde nozze e i figli nati dal matrimonio con quest′ultima. La causa veniva promossa dai figli di prime nozze, i quali, per un verso, chiedevano che i figli nati dal secondo matrimonio conferissero in collazione i terreni in Castrovillari loro donati dal de cuius con atto del 23 luglio 1990, per l′altro, con separato giudizio - poi riunito al precedente - chiedevano accertarsi che l′atto di vendita di un terreno rogato in data 23 settembre 1957 tra il de cuius e il secondo coniuge, prima di contrarre matrimonio, simulasse in realtà, una donazione soggetta a collazione. In particolare, in relazione a tale ultimo atto di disposizione, gli attori sostenevano che l′obbligo di collazione dei beni simulatamente donati doveva essere esteso ai figli nati da Tizio e dalla sua seconda moglie, ai quali la donataria aveva a sua volta donato il cespite; su tali questioni, la Corte di Appello di Catanzaro riteneva che, per quanto concerne l′atto di donazione del 1990, la dispensa da collazione ivi disposta esentasse i figli di seconde nozze dal conferimento ai fini della riunione fittizia di beni del defunto; quanto, invece, alla simulata vendita del 1957, il giudice di secondo grado rilevava che gli attori non avevano dedotto in giudizio la lesione della loro quota di legittima, ne′ avevano proposto l′azione di riduzione. Conseguentemente essi non potevano giovarsi delle agevolazioni probatorie concesse al legittimario, avendo agito come eredi del de cuius ai fini della ricostituzione dell′asse ereditario. Ebbene, sullo sfondo di tali circostanze, la Corte di Cassazione affronta gli ampi temi innanzi menzionati, il primo dei quali emergeva a seguito del decesso,nelle more del giudizio, di una parte contumace in appello, sicché ne acquisivano la qualità di erede altre due parti le quali, invece, erano già costituite in proprio; pertanto, i ricorrenti provvedevano alla notifica del ricorso nei confronti dei predetti, sia presso il domicilio eletto per il giudizio di appello sia personalmente in quanto eredi del contumace defunto; nonostante il mancato perfezionamento della notificazione personale, la Cassazione non ritiene necessario procedere alla sua rinnovazione, dovendo trovare applicazione il principio secondo cui qualora una medesima persona fisica cumuli in sè la qualità di parte in proprio e quale erede di altro soggetto, non è necessario provvedere all′integrazione del contraddittorio nei suoi confronti, quale erede, ove la stessa sia già costituita in proprio, ravvisandosi nella specie l′unicità della parte in senso sostanziale ; pertanto, un′ulteriore notifica personale sarebbe stata inutile e contraria al principio della ragionevole durata del processo, avendo la parte già piena contezza del contenuto dell′atto. Nell′analizzare le rimanenti tematiche, la Suprema Corte affronta il problema del legittimario intenzionato a provare la simulazione di una vendita negoziata dal de cuius e, segnatamente della sua possibilità di avvalersi delle agevolazioni probatorie che la legge riconosce al terzo estraneo all′atto qualora la simulazione sia finalizzata esclusivamente alla collazione del bene dissimulatamente donato. A tal riguardo, la Suprema Corte rileva che il legittimario intenzionato a provare la simulata vendita di un bene appartenuto al de cuius acquisisce una posizione ben diversa a seconda che abbia agito a tutela della sua quota di riserva o abbia proposto una semplice istanza di collazione, atteso che in tale ultima circostanza egli agisce quale successore a titolo universale del de cuius, acquisendone, quindi, la medesima posizione giuridica e soggetto, di conseguenza, ai medesimi limiti per la prova della simulazione. Difatti, spiegano i giudici di legittimità, che la collazione trova il suo fondamento nella presunzione che il de cuius, facendo in vita donazioni al coniuge e ai figli, abbia semplicemente voluto compiere delle attribuzioni patrimoniali gratuite in anticipo sulla futura successione (Cass. n. 989/1995). In questo senso funzione della collazione e′ di conservare fra gli eredi la proporzione stabilita nel testamento o nella legge, permettendo ai coeredi, che siano il coniuge o il discendente, di conteggiare il valore della quota non solo sui beni relitti, ma anche sui beni donati a taluno di loro. Il criterio di ripartizione, tenuto dal testatore o stabilito dalla legge, e′ operante anche in sede di collazione. Non a caso, l′azione di collazione è finalizzata a ricondurre i beni donati agli eredi collatizi alla massa dei beni comuni, per poi procedersi alla divisione in proporzione delle rispettive quote legittime o testamentarie. Di contro, l′azione di riduzione riflette l′autonoma legittimazione e determinazione del legittimario ad opporsi alla volontà del de cuius al fine di reintegrare la quota minima riservatagli inderogabilmente dalla legge. In questo senso, è giusto affermare che le norme sulla collazione sono derogabili, al contrario di quelle che disciplinano le quote di riserva a favore dei legittimari, tant′è che la diversa volontà del de cuius, manifestata attraverso un atto di dispensa dalla collazione, trova unico limite nella intangibilità dei diritti dei legittimari. Nell′approfondire i rapporti tra l′azione di collazione e quella di riduzione, che costituisce la ratio sottostante alla decisione dei giudici di legittimità, si precisa che "La dispensa dalla collazione sottrae il donatario dal conferimento, ma non importa l′esclusione del bene donato dalla riunione fittizia ai fini della determinazione della porzione disponibile" (Cass. n. 74/1967). "La dispensa da collazione non sottrae la donazione dalla riduzione se essa sia lesiva della legittima altrui" (Cass., n. 13660/2017). I concetti sin qui esposti evidenziano che in relazione a taluni atti di liberalità il legittimario può essere legittimato ad agire sia a mezzo dell′azione di riduzione sia a mezzo della azione di collazione, le quali possono essere proposte cumulativamente o alternativamente a seconda della tutela e degli effetti giuridici che il legittimario intende ottenere. In particolare, la collazione attribuisce al coerede un concorso sul valore della donazione, di regola realizzato attraverso un incremento della partecipazione sul relictum(artt. 724 e 725 c.c.), laddove, nella misura della lesione di legittima, il legittimario ha diritto alla reintegrazione in natura (Cass. n. 1809/1969). Non sempre quindi il meccanismo della collazione è idoneo a far conseguire al legittimario la legittima nella sua integrità anche qualitativa. In caso di concorso tra le due azioni, allora accadrà che l′azione di riduzione miri a reintegrare la legittima, mentre l′azione di collazione è finalizzata a distribuire, dopo la reintegrazione della quota di riserva originariamente lesa, il valore della liberalità che ecceda la disponibile. In buona sostanza, è ammissibile il concorso tra l′azione di riduzione e collazione, ove la prima opererà in prima istanza al fine di reintegrare la legittima, la seconda interverrà, invece, successivamente per redistribuire il valore della donazione eccedente la disponibile. Tuttavia, osservano i giudici della Corte di Cassazione, può accadere che il legittimario possa ben ritenere di tutelare la propria posizione giuridica solo a mezzo dell′azione di collazione. Difatti, pur non essendo a tanto deputata, la collazione, in quanto obbliga i coeredi accettanti a conferire nell′asse ereditario i beni ricevuti con atti di liberalità, può comunque sortire l′effetto - per così dire - accidentale o collaterale, di eliminare eventuali lesioni di legittima realizzati da atti di donazione, senza necessità di azionare la tutela offerta dall′azione di riduzione, tramite il rientro del bene donato nell′asse ereditario. In relazione a tale ultima eventualità, si inserisce dunque il problema inerente la possibilità che il legittimario che chieda solo la collazione dei beni simulatamente donati si avvalga delle stesse agevolazioni in tema di prova della simulazione, del legittimario che esperisca azione di riduzione. Ebbene,a tal riguardo, la Suprema Corte conferma il granitico orientamento a mente del quale il legittimario che voglia provare la dissimulata donazione del suo dante causa ha la veste di terzo ai fini probatori solo se la lesione della quota di riserva assurga a causa petendi, accanto al fatto della simulazione e condizioni l′esercizio del diritto alla reintegra. Pertanto, ove il legittimario intenda tutelare i suoi diritti con mezzi diversi dalle azioni di reintegrazione della sua quota lesa in senso proprio, occorre pur sempre, per poter essere qualificato terzo in relazione all′atto di donazione del suo dante causa, che sia prospettata la lesione della sua quota di legittima e che agisca onde ottenerne reintegrazione. Nella fattispecie posta all′attenzione dei giudici della Corte di Cassazione, i ricorrenti mai avevano dedotto la lesione della loro quota di legittima, avendo invece chiesto solo la collazione dei beni donati al fine di ricostruire il patrimonio del de cuius e procedere, all′esito, alla divisione; pertanto, non potevano essere qualificati terzi rispetto all′atto di donazione. Sotto un diverso aspetto, strettamente connesso a quanto innanzi esposto, la Corte di legittimità censura l′operato dei giudici di merito nella parte in cui, pur non riconoscendo, per le ragioni su evidenziate, la veste di terzo all′appellante per dimostrare la simulata vendita dell′atto del 1957, ammettevano che, ai fini della divisione dei beni relitti, la misura della partecipazione degli appellanti doveva essere determinata con il procedimento di riunione fittizia, in applicazione dell′articolo 553 c.c. (che presuppone implicitamente che il de cuius abbia disposto di parte dei suoi beni per donazione e/o testamento). Osservano i giudici di legittimità, infatti, che una volta assunta d′ufficio siffatta determinazione e che, quindi, il patrimonio del de cuius doveva essere quantificato attraverso il procedimento di riunione fittizia (relictum + donatum) ex art. 556 c.c., la Corte di Appello non avrebbe potuto circoscrivere il donatum alle sole donazioni palesi, ovvero quella realizzata con atto del 1990, ma avrebbe dovuto coerentemente riconoscere la facoltà dei legittimari di provare, nella veste di terzi, la simulazione relativa della vendita del 1957. In particolare, i Giudici di legittimità osservano che correttamente la Corte di Appello, nell′individuare il criterio attraverso cui operare la divisione, ha fatto applicazione del principio di Cass.sent. n. 1521 del 1980 e segnatamente: "In base all′art. 553 c.c., anche nel caso in cui i successori siano tutti legittimari, il legittimario, essendo chiamato alla successione ab intestato sul relictum in una quota non inferiore alla sua quota di riserva, non ha alcun bisogno, per ottenere quanto riservatogli, di ricorrere all′azione di riduzione delle donazioni ai sensi dell′art. 555 c.c., qualora il relictum sia sufficiente a coprire la quota predetta quale risulta dalla riunione fittizia tra relictum e donatum, operazione che, non essendo finalizzata soltanto all′attuazione della riduzione, deve essere compiuta non solo quando si debba procedere a tale azione ma in ogni caso di concorso di legittimari nella successione, per determinare la quota di riserva spettante a ciascuno di essi. Ne consegue che, nel caso di successione di figli legittimi, la dispensa dalla collazione relativa alle donazioni effettuate in favore di uno dei coeredi, se importa che la successione e la divisione (secondo le quote previste dall′art. 566 c.c.) debbano essere limitate al relictum, senza che a detta dispensa, nel caso di prescrizione dell′azione di riduzione, possa più opporsi il limite costituito dall′intangibilità della legittima, non esclude che la porzione spettante sul relictum al coerede donatario debba essere ridotta di quanto necessario ad integrare la quota di riserva spettante (in base all′operazione predetta) agli altri coeredi, ferma peraltro - in forza della prescrizione dell′azione di riduzione - l′inattaccabilità delle donazioni anche nel caso in cui il relictum non sia sufficiente all′integrazione della quota di riserva". Ebbene, nell′applicare tale principio al concorso tra legittimari e concretizzarlo nella fattispecie in esame, ne consegue che in presenza di una donazione per la quale sia prevista la dispensa da collazione, la norma importa che le quote della successione intestata si applicano solo se la ripartizione che ne deriva non sia lesiva della quota di riserva. In caso contrario la donazione fatta con dispensa è comunque imputata nella quota del donatario nella misura occorrente per soddisfare la legittima altrui, mentre la donazione sarebbe soggetta a riduzione solo in caso di insufficienza del relictum e nei limiti di tale insufficienza (sempre che l′azione di riduzione sia ammissibile e sia stata in concreto proposta). Conseguentemente, se è vero che le operazioni di divisione del patrimonio tra legittimari devono farsi riunendo fittiziamente il donatum al relictum, è altrettanto vero che la Corte di Appello non avrebbe dovuto limitarsi solo alla donazione palese del 1990, essendo stata proposta domanda di accertamento della donazione simulata con l′atto di vendita del 1957. In relazione a ciò, i ricorrenti dovevano essere ammessi alla relativa prova nella qualità di terzi rispetto al rogito atteso che "L′erede legittimario che chieda la dichiarazione di simulazione di una vendita compiuta dal de cuius siccome celante una donazione assume la qualità di terzo rispetto ai contraenti - con conseguente ammissibilità della prova testimoniale o presuntiva senza limiti o restrizioni - quando agisca a tutela del diritto, riconosciutogli dalla legge, all′intangibilità della quota di riserva, proponendo in concreto una domanda di riduzione, nullità o inefficacia della donazione dissimulata. In tale situazione, infatti, la lesione della quota di riserva assurge a causa petendi accanto al fatto della simulazione ed il legittimario - benchè successore del defunto - non può essere assoggettato ai vincoli probatori previsti per le parti dall′art. 1417 c.c.; nè assume rilievo il fatto che egli - oltre all′effetto di reintegrazione riceva, in quanto sia anche erede legittimo, un beneficio dal recupero di un bene al patrimonio ereditario, non potendo applicarsi, rispetto ad un unico atto simulato, per una parte una regola probatoria e per un′altra una regola diversa" (Cass. n. 24134/2009). Orbene, nella sentenza qui commentata i Giudici di Legittimità pervengono ad una applicazione del principio summenzionato che ne suggerisce una più ampia formulazione; in buona sostanza, rileva la Corte di Cassazione che la qualità di terzo compete al legittimario alla sola condizione che l′accertamento della simulazione sia richiesto in funzione del pieno conseguimento della quota legittima, il che non implica necessariamente che, insieme alla domanda di simulazione, sia stata in concreto proposta una domanda di riduzione, nullità o inefficacia della donazione dissimulata (così Cass. n. 24134/2009), essendo a tal fine sufficiente, anche sotto il profilo dell′interesse ad agire, che la simulazione sia stata fatta valere in funzione di un effetto dipendente dalla riunione fittizia (cfr. Cass. n. 2620/1951), quale è certamente quello previsto dall′art. 553 c.c.. Pertanto, non essendo la riunione fittizia necessariamente legata alla proposizione dell′azione di riduzione, ma costituendo il necessario presupposto delle operazioni divisionali, ed applicandosi nella fattispecie concreta le disposizioni degli artt. 553 e 556 c.c., sarebbe iniquo e contra ius escludere dal donatum quanto oggetto di una donazione dissimulata. Alla luce di tutte le considerazioni sin qui esposte, la Corte cassa la sentenza impugnata, prescrivendo al giudice di merito di attenersi al seguente principio di diritto: "Il legittimario e′ ammesso a provare la simulazione di una vendita fatta del de cuius nella veste di terzo per testimoni e per presunzioni, senza soggiacere ai limiti fissati dagli articoli 2721 e 2729 c.c., a condizione che la simulazione sia fatta valere per una esigenza coordinata con la tutela della quota di riserva tramite la riunione fittizia. In questo senso il legittimario deve essere considerato terzo anche quando l′accertamento della simulazione sia preordinato solamente all′inclusione del bene, oggetto della donazione dissimulata, nella massa di calcolo della legittima, e cosi′ a determinare la eventuale riduzione delle porzioni dei coeredi concorrenti nella successione ab intestato in conformita′ a quanto dispone l′articolo 553 c.c." .
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L′acquirente di un bene, salvo specifica pattuizione a ciò finalizzata, non subentra nei contratti stipulati dal cedente relativi alla gestione del bene ceduto, ad eccezione dei casi previsti specificamente dalla legge
Pubblicato su IUSTLABL′acquirente di un bene, salvo specifica pattuizione a ciò finalizzata, non subentra nei contratti stipulati dal cedente relativi alla gestione del bene ceduto; ciò non si verifica nemmeno in presenza di mandato in rem propriam di cui all′art.1723, comma II, c.c., salvi i casi eccezionali previsti dalla legge come, ad esempio, in materia di cessione d′azienda, disciplinato dall′art.2558 c.c.. É quanto statuito dalla Corte di Cassazione, sez. I^, con la ordinanza del 26/08/2021, n.23498. La vicenda sottoposta all′attenzione del Collegio vedeva protagonista la società Alfa, la quale conveniva innanzi al Tribunale di Roma la società Gamma, poiché quest′ultima aveva stipulato diversi contratti con terzi concernenti lo sfruttamento di opere cinematografiche delle quali Alfa era contitolare dei diritti di utilizzazione economica; pertanto, la società Alfa chiedeva la rendicontazione delle somme complessivamente incassate dalla società Gamma, il pagamento della quota parte, nonché il risarcimento dei danni patiti. É necessario premettere, stante le articolate vicende giuridiche e di fatto che sottendono la questione de qua, che originariamente i diritti di sfruttamento delle suddette opere appartenevano in comunione alle società Delta e Beta; tuttavia, la società Delta, in riferimento all′esercizio della sua quota parte, conferiva mandato esclusivo e perpetuo in rem propriam in favore della stessa società Beta; successivamente, Gamma incorporava la società Beta, originaria mandataria, mentre per Delta si apriva procedura fallimentare. Sicché, Alfa acquistava a titolo particolare dal fallimento di Delta la sua quota di diritti relativi sfruttamento economico delle opere cinematografiche in questione. Ebbene, in virtù di tali vicende, la società Gamma riteneva di essere subentrata, o comunque, succeduta, nel mandato in rem propriam conferito da Delta, mandante, a favore di Beta, mandataria, e di aver, quindi, legittimamente distribuito in via esclusiva le opere. Il Tribunale di Roma, con sentenza parziale, accoglieva le domande di Alfa limitatamente all′accertamento dell′illecito sfruttamento esclusivo dei diritti da parte della società Gamma, rigettava la domanda di risarcimento dei danni e con separata ordinanza disponeva per l′ulteriore corso della domanda di rendiconto e pagamento dei compensi. La società Gamma impugnava, senza esito positivo, la sentenza parziale innanzi alla Corte di Appello di Roma; di seguito, proponeva avverso la decisione di secondo grado ricorso per Cassazione. Ebbene, il Supremo Collegio rigetta il ricorso, considerando corretto l′operato della Corte di Appello di Roma e reputando insufficienti le argomentazioni proposte dalla ricorrente nel minare la giuridica validità delle conclusioni cui era pervenuto il giudice di secondo grado, il quale, in buona sostanza, rilevava che il mandato in rem propriam avrebbe potuto essere opposto alla società Alfa soltanto qualora quest′ultima l′avesse esplicitamente riconosciuto o comunque si fosse espressamente vincolata al suo rispetto. In effetti, i diritti di sfruttamento delle opere cinematografiche erano stati conseguiti da Alfa per effetto di cessione a titolo particolare, avendoli acquisiti dal fallimento di Delta, società contitolare degli stessi unitamente alla dante causa di Gamma, ovvero la società Beta; a quest′ultima, la stessa società Delta conferiva l′esercizio esclusivo della propria quota parte dei diritti di sfruttamento economico delle opere a mezzo di un contratto di mandato in rem propriam (ciò stante, Beta esercitava in via esclusiva i diritti di sfruttamento delle opere cinematografiche in parte quale proprietaria, in parte quale mandataria di Delta); la cessione a titolo particolare dei summenzionati diritti non aveva comportato, nell′opinione del giudice di secondo grado, l′automatico subentro della società Alfa nel contratto di mandato stipulato da Delta con Beta, atteso che trattavasi di contratto obbligatorio e personale, ad essa non opponibile. Pertanto, osservava la Corte di Appello di Roma, il mero subentro da parte della società Alfa nella titolarità delle quote di Beta non determinava ex se anche l′opponibilità alla stessa dell′originario contratto di mandato. A fronte di tali argomentazioni, la società Gamma, reputando di essere succeduta nella posizione di mandataria a seguito dell′incorporazione della società Beta, ne rilevava la erroneità sulla scorta di tre ragionamenti: a) tali diritti erano pervenuti a Alfa per effetto di cessione a titolo particolare ad opera del fallimento della originaria contitolare, Delta; b) trattavasi di mandati in rem propriam nell′interesse del mandatario exarticolo 1723 c.c., comma 2; c) lo scioglimento del mandato e′ previsto solo in caso di fallimento del mandatario e non del mandante ex art. 78, L.Fall. Nessuno di questi argomenti viene reputato valido dalla Corte di Cassazione. In primo luogo, il fatto che i diritti di sfruttamento erano pervenuti a Alfa per effetto di cessione a titolo particolare ad opera del fallimento di Delta, originaria contitolare in comunione con la dante causa della Gamma (l′incorporata Beta), non dimostra affatto che Alfa sia subentrata anche nel distinto contratto di mandato - obbligatorio e personale - che vincolava la Delta, quasi si trattasse di una sorta di obligatio propter rem, in assenza di un adeguato fondamento normativo e per giunta di un adeguato sistema di pubblicità. In secundis, L′articolo 1723 c.c., comma 2, in tema di mandato conferito anche nell′interesse del mandante (il cosiddetto mandato in rem propriam) trae da questa sua specifica connotazione una particolare attitudine a resistere a circostanze afferenti la sfera del mandante (revoca, in difetto di specifica previsione o giusta causa; morte; sopravvenuta incapacità) per tutelare il concorrente interesse del mandatario. Tuttavia, nella presente fattispecie non si tratta di nessuna di queste ipotesi e si discute semplicemente se si realizzi un fenomeno di successione automatica nel rapporto di mandato (ex latere del mandante) per effetto dell′acquisto della titolarità dei diritti al cui esercizio il mandato si riferisce, secondo uno schema, per cosi′ dire, "ambulatorio" propter rem. Pertanto, il perno giuridico su cui si fonda la questione va individuato nell′esistenza di un possibile fenomeno successorio legato all′acquisto delle quote da parte della società Alfa e non già di certo sul tema della irrevocabilità del mandato ex art. 1723, comma II c.c., o ancora sull′art.78 L. Fall., irrilevante nel caso di specie. Conseguentemente, il contratto di mandato, come correttamente rilevato dai giudici di merito, va reputato sciolto proprio perché vincolava la sola società Delta e il suo fallimento e non può essere opposto alla cessionaria società Alfa, in mancanza di espressa sua dichiarazione di subentrarvi. Tali statuizioni, tra l′altro, sono conformi a consolidati orientamenti giurisprudenziali e dottrinali, in virtù dei quali nel nostro ordinamento l′acquirente di un bene non subentra nei contratti stipulati dal cedente per la sua gestione, salvi i casi eccezionali specificamente previsti dalla legge, fra cui spicca l′ipotesi di cui all′articolo 2558 c.c., in tema di cessione di azienda. Si consideri, ad esempio, l′indirizzo giurisprudenziale della Corte di Cassazione in tema di mandato in rem propriam all′incasso e successiva transazione del mandante, che ha escluso ogni connotato di realità del vincolo e ha attribuito al mandatario una tutela di tipo risarcitorio in presenza dei relativi presupposti. É stato infatti affermato che il mandato ad esigere un debito del terzo, conferito dal mandante al proprio creditore anche nell′interesse di quest′ultimo (mandato irrevocabile, cosiddetto in rem propriam), non comporta, di per sé, successione nel rapporto obbligatorio o novazione ex parte creditoris, in quanto lascia in capo al mandante la titolarità del diritto ed il potere di disporne; di conseguenza l′atto con cui il mandante dispone del credito verso il terzo (nella specie, transazione) impedisce al mandatario di esigere dal terzo una prestazione superiore a quella risultante dall′atto stesso, ferma restando l′esperibilità contro il mandante della actio mandati contraria, o dell′azione di risarcimento dei danni, ove quell′atto di disposizione configuri una non consentita revoca del mandato, pregiudicante l′interesse del mandatario (Sez. 1, n. 3157 del 18/09/1976, Rv. 381931 - 01; cfr. anche Sez. 1, n. 10819 del 04/12/1996, Rv. 501038 01). Conclusivamente, alcun fondamento possono avere i motivi di ricorso proposti dalla società Gamma, le cui ragioni, invece, suggeriscono i giudici di legittimità, avrebbero potuto essere fatte valere nei confronti della cedente - e originaria mandante - ovvero il fallimento della società Delta. In virtù di tanto, si trae da Cass., sez. I^, ord. 26/08/2021, n. 23498 la seguente massima: "In materia di successione nei negozi giuridici, l′acquirente di un bene, in difetto di pattuizione ad hoc all′atto della cessione, non subentra nei contratti stipulati dal cedente per la sua gestione e in particolare in un mandato in rem propriam ex articolo 1723 c.c., comma secondo, salvi i casi eccezionali specificamente previsti dalla legge, fra cui l′ipotesi di cui all′articolo 2558 c.c. in tema di cessione di azienda".
Il diritto reale tra territorialità e globalizzazione
Giustizia - Il Periodico dell'Elite del Diritto - 1/2025Nell'intervista spiego come il diritto reale, pur nella sua storica rigidità, si stia evolvendo per rispondere alle esigenze del mercato globale
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Via Belvedere N. 45
Napoli (NA)