Pubblicazione legale:
Il caso
Una coppia di
coniugi, per fatti accaduti prima del 1.4.2017, citava in giudizio un ospedale
e due medici, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in
conseguenza dell'aborto subito a seguito di amniocentesi, allorché, il medico –
contrariamente alle buone prassi mediche – aveva inserito l'ago nell'utero per
ben tre volte.
In primo grado
la domanda era accolta parzialmente. Il medico proponeva e la Corte d’Appello,
accogliendo il ricorso del sanitario, rigettato la domanda attorea in quanto l'inserimento
dell'ago nell'utero della donna non era stato provato.
Proposto
ricorso in Cassazione, la Suprema Corte lo accoglieva, annullano la sentenza di
secondo grado, sul presupposto che il medico non aveva dimostrato di aver
eseguito la prestazione professionale in modo diligente.
La questione
In tema di responsabilità medica, anteriormente all’entrata
in vigore della Legge n. 24 del 2017 (c.d. Legge Gelli – Bianco), come si
ripartisce l'onere della prova?
Le soluzioni giuridiche
Come noto, in
base ai principi di diritto in tema di accertamento e prova della condotta
colposa e del nesso causale, il danneggiato ha l'onere di provare il nesso di
causa tra la condotta del danneggiante (medico, struttura sanitaria, ecc..) e l'evento
dannoso. In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria,
secondo il più recente orientamento giurisprudenziale, incombe sul paziente che
agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare il nesso di causalità
tra l'aggravamento della patologia (o l'insorgenza di una nuova malattia) e
l'azione o l'omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a
tale onere, spetta alla struttura dimostrare l'impossibilità della prestazione
derivante da causa non imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato
determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l'ordinaria
diligenza.
Nel caso in
esame, la Corte di Cassazione civile con ordinanza n. 10050 del 29 marzo 2022, ha
annullato la pronuncia della corte di appello. Infatti, tenuto conto della
breve lasso di tempo trascorso tra amniocentesi e perdita del liquido amniotico
da cui è poi seguito l'aborto, pur mancando la prova certa dell'inserimento per
tre volte dell'ago nell'utero della donna, i sanitari non sono riusciti a
dimostrare o ipotizzare un’eventuale causa alternativa alla perdita del liquido
amniotico. Per questo motivo, secondo il principio del “più probabile che non”
il ricorso è stato accolto e medico e struttura sanitaria condannati al
risarcimento del danno.