Pubblicazione legale:
Al fallimento, anche se solo fortunae, si è sempre storicamente guardato come ad una sciagura. Per le conseguenze patrimoniali e personali che ad esso conseguivano. L’insolvente infatti, spesso e volentieri, si dava alla fuga, propter debita, appunto.
Le cose sono come noto cambiate, significativamente, a seguito delle varie riforme introdotte, anche di recente, che hanno reso senz’altro più favorevole, razionale, moderna, meno afflittiva, la disciplina dell’insolvenza. Ancor oggi, tuttavia, non è infrequente che l’imprenditore cerchi di ritardare il più possibile il proprio fallimento, facendolo come si dice per ultimo! Così che, spesso accade, che, carte vere o false, si presenti l’imprenditore in banca per ottenere la liquidità necessaria quanto meno al «galleggiamento». Magari è la stessa banca, già sua creditrice, a chiamarlo per concedergli finanza nuova, ulteriore, in caso necessaria ad evitare o ritardare quanto più possibile l’emersione dell’insolvenza e, in uno, al fine, «colpaccio», di assicurarsi il consolidamento delle garanzie eventualmente prestate, anzi ricevute, altrimenti revocabili. Erogata comunque sia (per colpa o dolo della banca) finanza sufficiente a consentire il mantenimento artificioso dell’impresa (finanziata) nel mercato, questo ne esce per forza di cose falsato. Ed i singoli creditori (della finanziata), quelli per lo meno in chirografo, subiscono un danno da inadempimento, ulteriore, distinguibile, proporzionale all’aggravamento del passivo conseguente alla artificiosa prosecuzione dell’impresa debitrice. E, a monte, dalla concessione del credito che l’ha resa possibile.
Fonte: Resp. civ. prev., f. 1-2, 2022, 465 ss.