Pubblicazione legale:
La
responsabilità penale del datore di lavoro per contagio da Coronavirus: presupposti
e limiti
Il
deflagrare dell’epidemia di Covid-19 comporterà, tra le molteplici conseguenze,
anche quella di modificare la nozione giuridica stessa del concetto di “sicurezza
sul luogo di lavoro” cui la nostra normativa fa riferimento.
Quello
degli obblighi di sicurezza che, a vario titolo, gravano sull’imprenditore/datore
di lavoro è tema, su cui, come noto, il legislatore si è profuso, negli ultimi
anni, in una pluralità di interventi normativi di vario grado il cui intento è
quello di garantire in maniera sempre più stringente il lavoratore da qualsiasi
rischio inerente al luogo di lavoro.
Ciò,
come noto, comportava già, prima dell’emergenza Covid-19, un onere piuttosto gravoso
in capo al datore di lavoro, chiamato a dotarsi, a sue spese e a pena di incorrere
in responsabilità (anche) di natura penale, dei necessari presidi di sicurezza nonchè
a provvedere, tra l’altro, all’adeguata formazione del personale.
L’emergenza
Covid-19 tuttora in atto ha posto tutti noi al cospetto di un rischio evidentemente
imprevisto (ancorchè oggettivamente non imprevedibile, quantomeno dagli organi sanitari
a ciò deputati) e di natura peculiare perché, lungi dall’essere relegato, come
avviene per la quasi totalità degli altri fattori di rischio, a specifiche
attività lavorative, incombe potenzialmente su tutti noi e, ovviamente, sulla
pressochè totalità dei lavoratori.
Con
il presente contributo ci proponiamo dunque, con taglio il più possibile
pratico e conciso, di fornire risposta agli imprenditori/datori di lavoro
che, nell’arco delle ultime settimane, hanno richiesto delucidazioni in merito
ai profili di responsabilità in cui potrebbero incorrere nella malaugurata ipotesi
in cui un loro dipendente (o anche un terzo) dovesse contrarre l’infezione
Covid-19 sul luogo di lavoro.
L’eco
mediatica suscitata da alcune inchieste giudiziarie attualmente in corso
presso diverse Procure italiane, volte ad accertare eventuali responsabilità per
il contagio di ospiti di R.S.A. e aziende ospedaliere, fa
comprendere che la preoccupazione degli imprenditori non è infondata e che
verosimilmente i controlli sull’osservanza delle relative misure di sicurezza
si intensificheranno nei prossimi mesi.
Il
quadro normativo cui occorre fare riferimento riposa principalmente su due note
disposizioni normative che, oramai da diversi anni, disciplinano,
rispettivamente, la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro (D.
L.vo 81/2008) e la responsabilità penale-amministrativa delle
persone giuridiche per fatto costituente reato (D. L.vo 231/2001).
Si
tratta, come anzidetto, di norme le cui prescrizioni sono – generalmente - già note
agli imprenditori, non fosse altro per le conseguenze di natura penale che
prevedono in capo al legale rappresentante in caso di loro inosservanza.
Il
quadro così tratteggiato si completa se alle predette disposizioni normative,
in funzione integrativa delle medesime, affianchiamo la pluralità di interventi
di rango secondario (circolari, linee guida, protocolli, ecc.) emanati
proprio per fronteggiare l’emergenza Covid-19 sui luoghi di lavoro, di cui proveremo
a fornire un quadro sintetico.
I
presupposti della responsabilità penale
Per
il principio generale di prevedibilità e evitabilità dell’evento sostanziato
dal combinato disposto degli artt. 40-42 del nostro Codice Penale, per
rispondere in sede penale di un evento, occorre che quest’ultimo fosse
prevedibile e evitabile da chi era investito dell’obbligo giuridico di
impedirlo.
Il
predetto criterio va sempre tenuto a mente nell’interpretare le dettagliate
prescrizioni della normativa in materia di sicurezza sul luogo di lavoro nonché
per fondare la responsabilità penale di un soggetto per il contagio da Covid-19.
Ora,
va detto che, se da un lato l’emergenza Covid-19 ha colto clamorosamente
impreparati alcuni settori del Paese che avrebbero dovuto ragionevolmente ipotizzare
l’eventualità, già più volte manifestatasi anche in un recente passato, di un’epidemia
e provvedere, ad esempio, a rifornire per tempo gli ospedali di sufficienti forniture
di dispositivi di protezione individuale e di specifiche procedure di
trattamento dei casi, dall’altro lato quello dell’esposizione a un agente infettivo
patogeno e del relativo contagio sul luogo di lavoro è rischio già da tempo
contemplato dall’ordinamento e dalla giurisprudenza ([1]).
Ragionando
di responsabilità penale del datore di lavoro e avendo a mente il principio
di tassatività, in funzione del quale nessuno può essere chiamato a rispondere
in sede penale di un fatto che non sia espressamente previsto come reato, la
prima domanda (la cui risposta, a giudicare da quanto è dato leggere sui mass
media in questi giorni, non è poi così scontata) è: quale reato si può ipotizzare
in caso di contagio da Covid-19?
Il
contagio viene equiparato, per consolidatissima giurisprudenza, alla “malattia”
che forma oggetto del reato di lesioni personali previsto dall’art. 590 del
Codice Penale.
La
“malattia”, infatti, secondo la nozione costantemente recepita nelle corti
di giustizia è “…qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo…”
([2]).
Il
predetto principio viene ribadito peraltro proprio dall’art. 42 del
D.L. 18/2020 (c.d. Decreto Cura Italia), laddove si precisa espressamente
che il contagio da Covid-19 deve essere trattato dal datore di lavoro
(pubblico o privato che sia) e dall’Inail come un infortunio.
Completa
il quadro la circolare Inail n. 13 del 3/4/2020 che precisa “…secondo
l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive
e parassitarie, l’Inail tutela tali affezioni morbose, inquadrandole, per l’aspetto
assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro…”.
La
sussistenza di una “malattia” così definita, pertanto, è condizione
necessaria ma ancora non sufficiente, di per sé sola, per
ipotizzare in capo al datore di lavoro una responsabilità penale.
A
questo fine occorrerà ancora, infatti, valutare se in capo al medesimo vi fossero
altresì:
·
la posizione di garanzia, ovvero l’obbligo
giuridico di evitare l’evento lesivo;
·
la colpa, sia essa colpa c.d. “specifica
o qualificata”, ovvero la violazione di prescrizioni di legge o di normativa
secondaria che mirano proprio ad evitare l’evento che si è concretizzato (c.d. “norma
cautelare”), o colpa c.d. “generica”, ovvero la violazione di ordinarie
regole di prudenza.
I
limiti della responsabilità penale
E’
a questo punto che emerge la centralità, per qualificare (o escludere) la responsabilità
penale del datore di lavoro per contagio da Covid-19, delle
prescrizioni di cui al già citato D. L.vo n. 81/2008 (Testo Unico sulla
Sicurezza sul Luogo di Lavoro) e, come si dirà, del D. L.vo 231/2001
(Responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche).
Se,
infatti, quasi sempre (ma non necessariamente, come si vedrà infra), il
datore di lavoro/legale rappresentante dell’impresa è titolare della posizione
di garanzia, ovvero dell’obbligo giuridico di evitare l’evento lesivo del
contagio, al fine di poter contestare al medesimo la responsabilità penale
legata alla relativa malattia (o, addirittura, al decesso), occorrerà altresì
dimostrare che in capo al predetto vi sia un profilo di colpa nel senso
anzidetto, in particolare di colpa specifica per violazione di legge o
normativa secondaria, dunque la violazione di una o più “norme cautelari”.
Ora,
parlando di legge o normativa secondaria le cui prescrizioni
siano volte ad evitare l’evento lesivo a quali disposizioni facciamo
riferimento?
Principalmente, a quelle
contenute nel D. L.vo 81/2008 (Testo Unico sulla Sicurezza sul Luogo
di Lavoro), eventualmente integrate dalle successive disposizioni di rango
secondario (che di seguito sintetizzeremo) in materia di prevenzione del
contagio da Coronavirus sul luogo di lavoro, nelle quali si deve oramai tenere
conto anche della copiosa e recentissima regolamentazione emergenziale.
Sarebbe
errato vedere in ciò un meccanismo di deminutio della tutela della
persona offesa contagiata, sostanzialmente gravata (tramite il pubblico
ministero) dell’onere di dimostrare la violazione di una norma cautelare da
parte del datore di lavoro per poter ottenere giustizia in sede penale.
Si
tratta, piuttosto, dell’applicazione di un basilare principio illuministico di
civiltà giuridica e di buon senso, in funzione del quale non si può esigere che
alcuno venga chiamato a rispondere in sede penale di eventi lesivi che non era
per legge tenuto a evitare.
Ciò
vale in generale, rispetto a qualsiasi rischio di natura lesiva che si possa
concretizzare nell’ambito dell’attività produttiva e vale a maggior ragione per
il rischio da contagio di Covid-19.
Il
principio anzidetto comporta dunque che l’imprenditore/datore di lavoro è
tenuto, a rischio di risponderne in sede (anche) penale, a rispettare le
prescrizioni normative dettate dal D. L.vo 81/2008 in materia di
sicurezza (che impongono le relative norme cautelari nel senso anzidetto)
ma, per converso, laddove egli osservi le predette prescrizioni e
occorra un infortunio (incluso il contagio), risulterà assai difficile per il
pubblico ministero ipotizzare a suo carico qualsiasi responsabilità di natura
penale, difettando la colpa consistente nella violazione di una norma cautelare.
Di
qui l’assoluta importanza di conoscere in maniera dettagliata le prescrizioni
che il D. L.vo 81/2008 (Testo Unico della Sicurezza sul Luogo di Lavoro)
pone a carico degli imprenditori/datori di lavoro, dal momento che, nell’esperienza
delle corti, nella quasi totalità dei casi, la differenza tra l’esito
assolutorio e la condanna, con tutte le relative conseguenze anche
in materia di D. L.vo 231/2001, risiede nell’adozione di alcune, minime misure
che tuttavia consentono di dimostrare in giudizio l’insussistenza della colpa
per violazione di una norma cautelare.
E’
palese anche il contrario: un datore di lavoro (e si badi, sono inclusi
nel novero dei soggetti destinatari delle prescrizioni di cui al D. L.vo
81/2008 anche le strutture sanitarie e ciò darà luogo a non poche
azioni della magistratura inquirente nei prossimi mesi) che non si cura di
adeguarsi minimamente alle prescrizioni del D. L.vo 81/2008 e, laddove
applicabile, del D. L.vo 231/2001 (Responsabilità amministrativa da
reato delle persone giuridiche) si espone al rischio assai concreto di
essere inosservante (a sua insaputa) di una miriade di norme cautelari
che nondimeno lo individuano come titolare della posizione di garanzia e
per ciò solo ha un’altissima probabilità, non appena occorra un infortunio
di qualsiasi genere, di incorrere in una condanna penale, con
tutto ciò che ne consegue anche in punto di responsabilità dell’ente ex D.
L.vo 231/2001.
Vale
dunque la pena dedicare qualche istante all’individuazione delle predette
norme cautelari, la cui osservanza da parte dell’imprenditore/datore di lavoro
può evitargli conseguenze di natura penale in caso di infortunio e, nella specie,
di contagio da Covid-19.
La
fonte delle norme cautelari: il D. L.vo 81/2008
La
prima e principale fonte delle predette norme cautelari, nella prassi e
nelle corti giudiziarie, è proprio il D. L.vo 81/2008 (Testo Unico della
Sicurezza sul Luogo di Lavoro) che, a sua volta, costituisce un’attuazione del principio
generale sancito dall’art. 2087 del nostro Codice Civile, in virtù
del quale il datore di lavoro ha l’obbligo di attuare, nell’esercizio dell’impresa,
tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la
tecnica, risultano necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità
morale dei prestatori di lavoro, dovendosi includere, alla luce dell’orientamento
giurisprudenziale assolutamente consolidato in materia, anche a prevenire l’insorgenza
di malattie correlate al lavoro stesso.
L’obbligo
di vigilare sull’applicazione e sull’osservanza delle misure di sicurezza all’interno
dell’azienda, del resto, grava sullo stesso datore di lavoro, a meno che egli
non rilasci apposita delega con le forme previste dall’art. 16 D.
L.vo 81/2008.
La
giurisprudenza prevalente, comunque, stenta ad escludere, per la sola esistenza
delle delega, la responsabilità penale del datore di lavoro, essendo
casomai più frequente il caso in cui vengano rinviati a giudizio,
contestualmente, il datore di lavoro e il delegato, magari per violazioni di
norme cautelari differenti ([3])
Senza
ulteriormente soffermarci in questa sede sui limiti del concorso di responsabilità
penale del datore di lavoro in presenza di altre figure previste dalla
normativa (R.S.P.P., preposto, ecc.), basti rilevare che tanto
rigore nell’attuazione delle prescrizioni del Testo Unico sulla Sicurezza può
talvolta apparire eccessivo e poco consapevole delle concrete difficoltà che
affronta il datore, soprattutto in caso di imprese medio-grandi, nel gestire
direttamente ogni aspetto organizzativo dell’operare quotidiano d’impresa.
Tuttavia,
non va neppure dimenticato che esistono comunque obblighi che, ai sensi
dello stesso D. L.vo 81/2008, il datore di lavoro non può
comunque delegare e che ciò nonostante, spiace rilevarlo, non di rado
non vengono comunque correttamente osservati, anche in imprese di dimensioni considerevoli.
I
predetti obblighi, individuati dall’art. 17 del D. L.vo 81/2008, sono:
·
la designazione del Responsabile del
Servizio di Prevenzione e Protezione;
·
la valutazione dei rischi e l’elaborazione
del Documento di Valutazione dei Rischi.
Il
D. L.vo 81/2008 pone poi, agli artt. 18-55, l’osservanza di altri obblighi
in capo al datore di lavoro, che risultano ancor più rilevanti per quanto
concerne il rischio di contagio da Covid-19.
Si
tratta di obblighi che, tuttavia, possono essere delegati dal datore di
lavoro e, in particolare:
·
la nomina di un medico competente per la sorveglianza
sanitaria in azienda e la gestione delle emergenze;
·
la programmazione delle misure di prevenzione;
·
la valutazione dei rischi derivanti dall’esposizione
agli agenti biologici presenti nell’ambiente;
·
informare i lavoratori circa il
pericolo esistente, le misure predisposte e i comportamenti da adottare;
·
richiedere l’osservanza da
parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali
in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione;
·
prevedere le condotte da attuare in caso di pericolo
immediato;
·
richiedere al medico competente l’osservanza
degli obblighi previsti a suo carico;
·
fornire i necessari e idonei dispositivi
di protezione individuale;
E’
proprio quest’ultimo obbligo che, per le specificità proprie del
rischio di contagio da Covid-19, risulta, a quanto è dato intendere dalle prime
attività di indagine condotte dalle procure, maggiormente disatteso,
anche dalle strutture sanitarie (e non solo da quelle private!), dal
momento che, è bene rammentarlo, le prescrizioni del D. L.vo 81/2008
risultano vincolanti anche per le strutture sanitarie, anche rivestenti natura
pubblica.
E’
di tutta evidenza, peraltro, che l’art. 18, lett. “d” del D. L.vo 81/2008
che contempla il predetto obbligo, è esplicito nell’affermare che i dispositivi
di protezione individuale debbono essere “…necessari…” e “…idonei…”.
Il
pensiero corre dunque, prima ancora che alle imprese, alle (tante) strutture
sanitarie in cui gli operatori hanno denunciato l’assenza di idonei
dispositivi (mascherine non adeguate al rischio Covid-19, assenza di
guanti, tute monouso, ecc.).
E’
evidente che, in casi analoghi, la violazione del predetto obbligo
risulta già di per se stessa sufficiente a costituire l’inosservanza di
una norma cautelare sulla quale il pubblico ministero procedente potrà agevolmente
strutturare un’ipotesi di accusa colposa (per lesioni o per omicidio)
per colpa specifica consistente in (evidente) violazione di legge.
E’
inoltre da tenere sempre presente, per ogni impresa, sia essa di natura
sanitaria o meno, che l’obbligo di tutela vale anche nei riguardi degli infortuni
(incluso, ovviamente, il contagio) patiti da terzi (ad esempio, visitatori
dei pazienti ricoverati) nell’area di pertinenza dell’azienda stessa ([4]).
Stupisce
pertanto, nel senso anzidetto, che alcune procure, in presenza di un numero di contagi
degli operatori di strutture sanitarie così elevato da far ipotizzare l’inosservanza
di basilari misure di sicurezza quali l’adeguata fornitura di dispositivi
di protezione individuale, si siano cimentate nel compito (ben più arduo) di
cercare di dimostrare la sussistenza degli elementi costitutivi delle
fattispecie di reato di cui agli artt. 452-438 del Codice Penale (epidemia
colposa) che, per giurisprudenza prevalente, non è integrabile mediante una
condotta omissiva ma, al contrario, solo con una condotta commissiva e per di
più a modalità vincolata ([5]).
Ben
più agevole, in chiave accusatoria, sarebbe infatti dimostrare la (probabile)
inosservanza di una o più disposizioni del D. L.vo 81/2008 per disporre
di un’ipotesi di accusa agevolmente spendibile in giudizio e non banale da
smontare per la difesa.
Per
quanto qui rileva, comunque, il dato da acquisire è quello per cui il datore
di lavoro/legale rappresentante è titolare (anche) della posizione di
garanzia rispetto al rischio che i suoi stessi dipendenti o terzi
contraggano in ambiente lavorativo il Covid-19 e, salvo provare che la condotta
del danneggiato fosse assolutamente abnorme e imprevedibile, l’unico
modo per smontare l’ipotesi accusatoria sarà quello di provare di aver adottato
tutte le cautele previste dalla normativa ([6]).
Momento
del contagio e norme applicabili
E’
a questo punto che occorre distinguere tra contagio concretizzatosi prima
dell’intervento della normativa emergenziale di cui stiamo per dire e condotte
maturate in seguito a quest’ultima, recentissima normativa, di cui possiamo
individuare il primo “tassello” nella Circolare del Ministero della Salute n.
3190 del 3/2/2020.
Per
queste ultime condotte, maturate prima del 3/2/2020, le norme
cautelari di cui il datore di lavoro/legale rappresentante dovrà dimostrare
l’osservanza per andare esente da responsabilità penale, saranno (solo) quelle
appena analizzate e contenute nel D. L.vo 81/2008.
Sarebbe
infatti assurdo chiamare a rispondere l’imprenditore/datore di lavoro delle
conseguenze di un rischio che, evidentemente, non era stato opportunamente
ponderato neppure dalla più specializzata comunità medico-scientifica,
colta clamorosamente in contropiede dalla natura e dalla diffusione del
contagio, e dalle stesse strutture sanitarie, anche pubbliche.
In
parte differente è il ragionamento da fare per quanto concerne i contagi avvenuti
dopo il 3/2/2020.
In
questo caso, infatti, oltre che una maggiore e diffusa consapevolezza
generalizzata del rischio, ha cominciato a consolidarsi una normativa
(fin troppo) copiosa di natura secondaria che ha sostanzialmente
integrato (spesso, per la verità, in apparente inconsapevolezza) le prescrizioni
già presenti in materia nel D. L.vo 81/2008.
Sarà
pertanto necessario per il datore di lavoro/legale rappresentante, in caso di
contagio avvenuto dopo il 3/2/2020, dimostrare non solo l’osservanza
delle prescrizioni di cui al D. L.vo 81/2008 ma altresì di quelle successive,
di natura secondaria, che si sono susseguite in queste ultime concitate
settimane di alluvionale produzione normativa e regolamentare.
Fin
dal 3/2/2020, infatti, il Ministero della Salute emanava la Circolare
n. 3190, con cui, rivolgendosi agli operatori a contatto quotidiano con il
pubblico forniva alcune basilari indicazioni, quali:”
·
lavarsi frequentemente le mani;
·
porre attenzione all’igiene delle superfici;
·
evitare i contatti stretti e protratti con
persone con sintoni simil influenzali;
·
adottare ogni ulteriore misura di prevenzione
dettata dal datore di lavoro;
Seguivano,
come noto, diversi Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, che
hanno previsto la sospensione di tutte le attività industriali e commerciali
salvo quelle di cui all’allegato 1 del D.P.C.M. 10/4/2020 e il Protocollo
condiviso di regolamentazione delle misure anti-contagio negli ambienti di
lavoro, sottoscritto in data 14/3/2020 dal Governo
e da Confindustria con il dichiarato fine di coniugare “…la prosecuzione
delle attività produttive con la garanzia di condizioni di salubrità e
sicurezza degli ambienti di lavoro e della modalità lavorative…”.
In
buona sostanza, il predetto Protocollo prevede la riduzione dell’attività
lavorativa, invitando i lavoratori a ricorrere allo smart working, a
usufruire degli ammortizzatori sociali o, in caso di impossibilità di ricorrervi,
invita il datore di lavoro alla sanificazione periodica dei luoghi di
lavoro, all’adozione di protocolli di sicurezza che possano prevenire il
contagio, al rispetto della distanza interpersonale di almeno un metro, all’adozione
di specifici dispositivi di protezione individuale e alla riduzione
maggiore possibile delle occasioni di contatto all’interno degli spazi
aziendali.
Si
tratta, in realtà, di prescrizioni che un’accorta valutazione dei rischi,
compendiata nel Documento di Valutazione dei Rischi, unita all’osservanza
di alcune regole di comune buon senso e all’applicazione delle altre prescrizioni
di cui al D. L.vo 81/2008 avrebbe potuto anche precorrere e infatti,
nella prassi, molte aziende avevano già attuato di propria iniziativa prima
dell’intervento del predetto Protocollo.
L’osservanza
delle prescrizioni del Protocollo del 14/3/2020 e delle altre
prescrizioni già analizzate e contenute nel D. L.vo 81/2008, magari unita
all’aggiornamento del Documento di Valutazione dei Rischi, sentito il medico
aziendale, rende realisticamente tranquillo il datore di lavoro/legale rappresentante
di non incorrere in responsabilità penale in caso di contagio da Covid-19
occorso anche dopo il 3/2/2020.
La responsabilità
penale-amministrativa dell’ente ex D. L.vo 231/2001
Come
già cennato in precedenza, vi è, accanto al D. L.vo 81/2008 di cui già
si è detto, un altro testo normativo, presente nel nostro ordinamento da ormai
quasi un ventennio, con le cui previsioni le persone giuridiche (imprenditori
ma non solo, anche enti pubblici e, per quanto qui rileva, aziende
ospedaliere) si trovano sempre più a doversi adeguare.
Il
D. L.vo 231/2001, infatti, come noto, è il provvedimento normativo che
disciplina, con titolazione programmatica “…la responsabilità amministrativa
delle persone giuridiche, delle società, e delle associazioni anche prive di
personalità giuridica…”.
Il
provvedimento è stato, a modo suo, rivoluzionario nella misura in
cui ha previsto, per la prima volta nel nostro ordinamento, una responsabilità
di natura para-penale (definita genericamente “amministrativa”
anche per non incorrere nelle maglie del divieto di responsabilità extra-personale
di cui agli artt. 27 Costituzione- 40 Codice Penale) a carico non “semplicemente”
del legale rappresentante dell’ente, ma anche dell’ente stesso,
che può pertanto essere destinatario di sanzioni para-penali di
varia natura, da quelle economiche a quelle interdittive quali il divieto di
contrattare con la pubblica amministrazione o il divieto di operare.
Senza
dimenticare l’obiettivo del presente contributo, che rimane quello di individuare
i profili di responsabilità del legale rappresentante in caso di contagio da Covid-19,
vale la pena spendere alcune brevi considerazioni anche in merito al predetto
profilo di responsabilità, che può involgere dunque non più solamente il legale
rappresentante ma altresì lo stesso ente rappresentato, rendendolo potenzialmente
destinataria delle sanzioni previste dal D. L.vo 231/2001.
Non
va dimenticato, peraltro, per i fini che qui rilevano, che la giurisprudenza
maggioritaria ritiene applicabili le prescrizioni del D. L.vo 231/2001
e la relativa responsabilità di natura amministrativa, anche alle aziende ospedaliere
pubbliche ([7]).
Non
ogni illecito, anche di natura penale, commesso in ambito aziendale,
comporta di per sé l’applicazione del meccanismo sanzionatorio di cui al D.
L.vo 231/2001 a carico della società.
La
responsabilità di quest’ultima, infatti, può operare in presenza di alcune
condizioni (art. 5 D. L.vo 231/2001), che debbono ricorrere
cumulativamente:
·
l’illecito deve essere commesso dal legale
rappresentante della società o da chi sia investito di poteri di rappresentanza,
di amministrazione o comunque di gestione dell’ente o di una sua unità
organizzativa dotata di autonomia;
·
l’illecito deve essere commesso in vantaggio
o nell’interesse dell’ente;
In presenza di questi presupposti, l’ente
può essere chiamato a rispondere dell’illecito commesso ove non riesca a
provare che:“…
A) l´organo dirigente ha adottato ed
efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di
organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di
quello verificatosi;
B) il compito di vigilare sul funzionamento e l´osservanza
dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo
dell´ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;
C) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli
di organizzazione e di gestione;
D) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte
dell´organismo di cui alla lettera b)….”.
Insomma,
senza soffermarci ulteriormente sulla natura e i presupposti di questo
peculiare tipo di responsabilità, per l’argomento che rileva nel presente
contributo ci è sufficiente sapere che le condotte illecite dei legali
rappresentanti o dei rispettivi delegati, ove commesse in vantaggio o
nell’interesse dell’ente e in assenza della previsione di un adeguato modello
di organizzazione e gestione (si noti il parallelo con il Documento di
Valutazione dei Rischi. di cui al D. L.vo 81/2008), possono esporre a gravi
conseguenze la stessa esistenza in vita dell’ente.
La
domanda che occorre porsi, a questo punto, è: per qualsiasi reato
commesso dai predetti soggetti “apicali” nell’interesse o a vantaggio dell’ente,
risponderà (anche) quest’ultimo ex D. L.vo 231/2001?
Ci
forniscono la risposta gli artt. 25 ss. del D. L.vo 231/2001,
che contengono l’elenco, più volte aggiornato, anche recentemente, dei reati
che, se commessi dai predetti soggetti nell’interesse o a vantaggio dell’ente,
possono dare luogo, in assenza dell’adozione da parte dell’ente del modello
di organizzazione e di gestione di cui all’art. 6 D. L.vo 231/2001,
possono dar luogo a responsabilità penale-amministrativa dello stesso.
Ebbene,
oramai numerose e assai eterogenee sono le fattispecie di reato che possono
ingenerare la predetta responsabilità dell’ente e sarebbe dispersivo condurne
un’analisi compiuta.
Ai
nostri fini, è importante rilevare che, dall’Anno 2007, sono state
inserite nel novero dei predetti reati due fattispecie tipicamente
ricorrenti nell’ambito dell’operatività aziendale, ovvero le lesioni colpose
e l’omicidio colposo legati all’inosservanza delle normative in materia di
sicurezza sul luogo di lavoro.
A
questo punto, il cerchio aperto con l’individuazione delle normative in
materia di sicurezza applicabili nel caso di contagio da Covid-19 si chiude.
Laddove,
infatti, venga ravvisata, nei termini già analizzati, l’inosservanza di prescrizioni
normative in materia di sicurezza sul luogo di lavoro che ha cagionato
delle lesioni o il decesso (e abbiamo già visto che il contagio da Coviud-19
è equiparato, appunto, alla “malattia” costituente l’elemento materiale
del reato di lesioni), (anche) l’ente ne verrà chiamato a rispondere ai
sensi del D. L.vo 231/2001, con la possibilità di incorrere in gravi
sanzioni, anche interdittive.
Il puntcum prurens parrebbe, a questo punto, quello di individuare il necessario “…vantaggio…” o “…interesse…” dell’ente, quale presupposto applicativo della relativa responsabilità, che deriverebbe all’ente stesso dalla condotta illecita, dal momento che, in assenza del predetto