Pubblicazione legale:
Dottrina e giurisprudenza concordano da tempo nell’interpretazione dell’obbligo di fedeltà espresso dall’art. 143, comma 2, c.c., come impegno, ricadente su ciascun coniuge, a non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale fra coniugi, nonché la fiducia reciproca, e non soltanto come astensione da relazioni sessuali extraconiugali, tanto che, da un lato, è stata affermata la violazione dell’obbligo di fedeltà anche nel caso di relazione del coniuge che, benché eventualmente non sostanziatasi (o non provata sostanziatasi) in un vero e proprio adulterio, abbia comunque offeso la dignità e l’onore dell’altro coniuge, in ragione degli aspetti esteriori con cui sia condotta nell’ambiente in cui i coniugi abitualmente svolgono la vita familiare, e, dall’altro, benché l’infedeltà vada valutata caso per caso in relazione ai comportamenti della coppia in concreto e delle singole circostanze, non escluda la rilevanza della infedeltà l’eventualità che la stessa sia una reazione a comportamenti dell’altro coniuge.
Benché minoritaria giurisprudenza abbia affermato che il dovere di fedeltà possa permanere anche dopo l’insorgere dello stato di separazione, ove si accerti che tra i coniugi sia rimasto un minimo di solidarietà tale da giustificarne la permanenza, la giurisprudenza maggioritaria è ferma nell’affermare l’incompatibilità dell’obbligo di fedeltà, connesso strettamente alla convivenza, con il regime di separazione, giudiziale o consensuale, ovvero altresì di una consolidata separazione di fatto.
La giurisprudenza ha, in taluni casi, comunque affermato la rilevanza di una pubblica convivenza con altra persona a ridosso della cessazione della coabitazione con l’altro coniuge, ledendo così l’onore e il decoro di quest’ultimo.
Detto ciò, ai fini che qui più interessano, la violazione del dovere di fedeltà e in generale dei doveri derivanti dal matrimonio non è sanzionata unicamente con le misure tipiche del diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, ma può dar luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c., senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione ovvero la presenza di una separazione consensuale sia a ciò preclusiva.
Infatti, il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare può assumere il connotato di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia può conseguentemente costituire il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo da un lato ritenersi che diritti definiti inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i titolari si pongano o meno all' interno di un contesto familiare (e ciò considerato che la famiglia è luogo di incontro e di vita comune nel quale la personalità di ogni individuo si esprime, si sviluppa e si realizza attraverso l'instaurazione di reciproche relazioni di affetto e di solidarietà, non già sede di compressione e di mortificazione di diritti irrinunciabili); e dovendo dall'altro lato escludersi che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio - se ed in quanto posta in essere attraverso condotte che, per la loro intrinseca gravità, si pongano come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona - riceva la propria sanzione, in nome di una presunta specificità, completezza ed autosufficienza del diritto di famiglia, esclusivamente nelle misure tipiche previste da tale branca del diritto (quali la separazione e il divorzio e, soprattutto, l'addebito della separazione), e vista altresì la strutturale compatibilità degli istituti del diritto di famiglia con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti, con la conseguente, concorrente rilevanza di un dato comportamento sia ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle pertinenti statuizioni di natura patrimoniale, sia quale fatto generatore di responsabilità aquiliana.
Tuttavia, la giurisprudenza ha specificato che i doveri che derivano dal matrimonio non costituiscono, però, in capo a ciascun coniuge e nei confronti dell'altro coniuge automaticamente altrettanti diritti, costituzionalmente protetti, la cui violazione è di per sé fonte di responsabilità aquiliana, ma la violazione di essi può rilevare in ambito aquiliano qualora ne discenda la violazione di diritti costituzionalmente protetti, che si elevi oltre la soglia della tollerabilità e possa essere in tal modo fonte di danno non patrimoniale. Devono in sostanza ricorrere tutti i presupposti ai quali l'art. 2059 c.c. riconnette detta responsabilità, secondo i principi affermati nella sentenza delle Sezioni Unite n. 26972/2008.
Isolando, tra i vari doveri che derivano dal matrimonio, il dovere di fedeltà, la violazione di detto dovere, sebbene possa indubbiamente essere causa di un dispiacere per l'altro coniuge, e possa provocare la disgregazione del nucleo familiare, non automaticamente è risarcibile, ma in quanto l'afflizione superi la soglia della tollerabilità e si traduca, per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca nell'altro coniuge, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, primi tra tutti il diritto alla salute o alla dignità personale e all'onore.
Infatti, si ritiene che l'ordinamento non tuteli il bene del mantenimento della integrità della vita familiare fino a prevedere che la sua violazione di per sé possa essere fonte di una responsabilità risarcitoria per dolo o colpa in capo a chi con la sua volontà contraria o comunque con il suo comportamento ponga fine o dia causa alla fine di tale legame. L'ammissione di una tale affermazione incondizionata di responsabilità potrebbe andare a confliggere con altri diritti costituzionalmente protetti, quali la libertà di autodeterminarsi ed anche la stessa libertà di porre fine al legame familiare, riconosciuta nel nostro ordinamento fin dal 1970. Il dovere di fedeltà non trova il suo corrispondente, quindi, in un diritto alla fedeltà coniugale costituzionalmente protetto, piuttosto la sua violazione è sanzionabile civilmente quando, per le modalità dei fatti, uno dei coniugi ne riporti un danno alla propria dignità personale, o eventualmente un pregiudizio alla salute.
Infine, occorre evidenziare come la persona terza con cui è stata intrattenuta la relazione extraconiugale, se, non essendo ovviamente soggetta all’obbligo di fedeltà coniugale, non potrebbe essere chiamata a rispondere per la violazione di tale dovere, ben potrebbe essere chiamata a rispondere direttamente del danno subito in conseguenza della violazione del dovere di fedeltà, ovviamente solo ove, con il proprio comportamento e avuto riguardo alle modalità con cui è stata condotta la relazione extraconiugale, abbia leso o concorso a violare diritti inviolabili, quali la dignità e l’onore, del coniuge tradito (ad es., attraverso la divulgazione diretta della relazione a fini di vanteria nel comune ambiente di lavoro ovvero mediante diffusione di immagini tra i terzi) e purché risulti provato il nesso causale tra tale condotta, dolosa o colposa, e il danno prodotto sempre ai sensi dell’art. 2043 c.c.: in mancanza di ciò, il comportamento dell’amante, inidoneo ad integrare gli estremi del danno ingiusto, costituirebbe piuttosto l’esercizio del suo diritto, costituzionalmente garantito, alla libera espressione della propria personalità, diritto che può manifestarsi anche nell’intrattenere relazioni interpersonali con persone coniugate, così come allo stesso modo in cui, nei limiti delineati, resta libero di autodeterminarsi ciascun coniuge.